L'incontro organizzato a Fiume Veneto da PordenonePensa è stato un'occasione per confrontarmi con un pubblico attento e sensibile sul grande tema della sostenibilità nelle organizzazioni.
Alcuni giorni fa ero con Michele Placido a presentare alla stampa un’opera teatrale inedita dal titolo “Lionardo. La sua più grande opera fu proprio la sua eredità”, andata in scena per la prima volta proprio a Milano nel Cortile delle Armi del Castello Sforzesco all’interno del cartellone #EstateSforzesca 2019 e delle celebrazioni del cinquecentenario della morte del grande genio italiano.
Si parlava dell’incontro tra Leonardo e l’appena quindicenne Francesco Melzi, un incontro che presto ha assunto la forma della relazione tradizionale tra maestro e allievo, e che si è consolidata al punto da concludersi con la nomina ad erede per tutto quanto riguardava la pittura e le tecniche collegate, oltre che dei documenti.
La storia ci racconta che Melzi conobbe Leonardo nel 1506 e lo accompagnò nel suo secondo soggiorno milanese che durò dal 1508 al 1513, per poi proseguire in Francia sino alla morte avvenuta appunto nel 1519. Fra i manoscritti e i disegni che, come si disse all’epoca, tenne care come reliquie, dal suo maestro ereditò anche il celebre Codice oggi noto come Atlantico, documento che contiene, oltre ai famosissimi studi sulle macchine, centinaia di nozioni uniche nel loro genere e diversi esempi di scrittura a specchio.
Una volta tornato a Milano dalla Francia, nel 1521, fece buon uso dell’endorsement che Leonardo gli consegnò nominandolo erede, divenendo la figura di riferimento da contattare sugli allestimenti artistici e negli eventi pubblici. Una figura informata e rispettata nell’ambito sociale, politico e culturale dell’epoca sino alla sua morte che avvenne a Vaprio d’Adda nel 1568, nella villa di famiglia, antica e famosa già all’epoca.
Una vita benedetta da un incontro, è il nocciolo emerso nella chiacchierata. Ma, al di là dell’eccezionalità di questo caso e dei suoi protagonisti, mi interessava sapere da Michele se nel nostro tempo, il passaggio generazionale dei talenti e dei mestieri, nel suo caso artistici e culturali, è ancora un modello coerente oppure è superato e consegnato per sempre a un passato che non tornerà più.
Mi ha risposto parafrasando un testo di Arthur Miller: “sono tutti miei figli”. Intendeva dire che a partire dalla sua stessa famiglia, che è una famiglia d’arte in cui i figli Violante e Brenno e i fratelli Donato e Gerardo, hanno la stessa passione per il teatro e provano la stessa gioia nel muovere le emozioni sul palcoscenico, sino a tutti coloro che hanno partecipato ai suoi spettacoli o hanno passato con lui anni davanti e dietro alla macchina da presa, sono tutti come “figli”, cioè eredi a cui spera di aver lasciato buone tracce.
Esistono decine e decine di attori e artisti, di uomini e donne che hanno partecipato alle sue messinscene e ai suoi progetti. In fondo è stato per loro un “papà dell’arte”. E quella dell’attore è un’arte difficile, dura, dove si suda, si soffre come in una famiglia. Con il passare degli anni, poi, occorre pensare anche al passaggio di consegne. Il maestro a quel punto non può che divenire un testimone delle carriere successive così come hanno fatto con lui i suoi maestri, Strehler, Ronconi, Orazio Costa, e tutti gli insegnanti dell’Accademia Nazionale di Arte Drammatica. È così che si tramanda la cultura.
Concordo con Michele. È un circolo virtuoso, anzi, una sfera, in cui il dare e l’avere, il trasferire e il ricevere, contribuiscono a rendere il flusso continuo di sapere, educazione, buona influenza, un processo fruttuoso che reca beneficio per tutto l’insieme.