“Ho imparato a fallire. La mia vita è fatta di un elenco infinito di fallimenti che colleziono ogni giorno” ha detto ai microfoni della mia trasmissione Il Tempo dei Nuovi Eroi in onda su Radio Italia, Jacopo Cardillo, che è il vero nome di Jago, l’artista e scultore italiano che con opere come “il figlio velato” porta bellezza nel mondo. “Come un bambino cado e sono contento di cadere perché a ogni caduta sono ad un passo dall’imparare a camminare”.
Questa è una delle immagini più immediate, luminose e positive che mi sia capitato di sentire da qualcuno che come me non si adegua al pensiero comune di relegare il concetto di fallimento nello scantinato buio delle azioni irreversibili. Quelle da cui non si ricava altro che un oscuro senso di inadeguatezza. Quelle da nascondere.
Fallire invece equivale a vivere. Pensateci un attimo. Se un bambino ritenesse la prima sua caduta una azione irreversibile di cui vergognarsi non si alzerebbe più da terra e non camminerebbe più incontro alla madre, alla nonna, al cagnolino o qualsiasi altra fonte di attrattiva si ponga sulla sua strada.
Se un calciatore si fosse fermato al primo tiro in porta fallito, al primo palo, non avremmo un solo campionato di calcio. Se un infermiere si fermasse alla prima iniezione, un chirurgo alla prima sutura, un chimico alla prima reazione, un architetto al primo calcolo, uno scienziato al primo esperimento, non saremmo qui a parlarne.
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