L'incontro organizzato a Fiume Veneto da PordenonePensa è stato un'occasione per confrontarmi con un pubblico attento e sensibile sul grande tema della sostenibilità nelle organizzazioni.
Sono le donne le principali vittime economiche e sociali della pandemia. A raccontarcelo è la recentissima indagine «La condizione economica femminile in epoca di Covid-19» di Ipsos per WeWorld, l’organizzazione italiana che da 50 anni difende i diritti di donne e bambini in 27 Paesi del mondo inclusa l’Italia. 1 donna su 2 ha visto peggiorare la propria situazione economica negli ultimi 12 mesi. Tra quelle occupate, 1 su 2 teme di perdere il lavoro in futuro. Tra quelle che invece non hanno occupazione, 1 su 4 dichiara di aver rinunciato a cercarla a causa della pandemia.
Non meno rilevanti rispetto a quelle economiche, sono le conseguenze psicologiche legate alla condizione di maggiore precarietà, vulnerabilità, dipendenza che è derivata dalla crisi sanitaria, tant’è che l’80% delle donne ne denuncia l’impatto devastante sulle proprie relazioni sociali e il 46%, cioè una su due, sulla propria voglia di vivere. A sperimentare in modo più preponderante l’impatto della pandemia sulla salute mentale sono le donne più giovani, quelle nella fascia d’età compresa tra i 18 e i 24 anni, le quali riferiscono di riceverne un’influenza particolarmente negativa anche sul fronte della propria autostima, della percezione sana di loro stesse. Il che corrisponde a perdere tutti i sostegni indispensabili per costruire una vita sana e dignitosa per sé e per i propri figli.
L’analisi di questi dati tuttavia porta a una ulteriore riflessione che non possiamo né dobbiamo trascurare poiché rivela una situazione doppiamente allarmante in quanto non solo fanno emergere il costo pesante dal punto di vista economico, sociale e morale a carico delle donne, ma anche come, in un anno in cui sono proprio le donne coloro che si sono prese in carico più di quanto non facessero già in precedenza gli anziani e i bambini, questo fardello che grava sulle donne rischia di riversarsi pure sulle altre due categorie già anch’esse penalizzate dal periodo di crisi sanitaria e per molteplici ragioni.
Gli anziani, per esempio, nel nostro Paese si configurano sempre più come l’ancora di salvezza nella dilagante crescita della povertà che, secondo le stime preliminari dell'Istat per il 2020, si attesta su valori preoccupanti con un milione di nuovi poveri e due milioni le famiglie in grave difficoltà, 335mila in più rispetto al 2019. Nell'anno della pandemia, dunque, la presenza di ultrasessantacinquenni in famiglia, che sono per lo più titolari di almeno un reddito da pensione, è l’elemento che garantisce entrate regolari e riduce il rischio di rientrare fra le famiglie in povertà assoluta.
Se dunque fino a qui il costo sostenuto dalle donne e dagli anziani è mappabile, quale sarà quello che pagheranno nel lungo periodo i bambini?
Secondo uno studio di alcuni economisti dell’Università di Stanford, il tempo di studio che i bambini hanno perso in questi lunghi mesi probabilmente provocherà danni permanenti non solo alle loro prospettive di vita ma anche in generale all’economia. Questo perché a determinare i risultati economici non sono solo le macchine usate per produrre beni e servizi bensì anche le competenze e l’innovazione. E innovazione e competenze dipendono proprio dall’istruzione. Secondo le loro stime, gli studenti coinvolti oggi, nell’arco della loro vita avranno redditi inferiori tra il 6 e il 9 per cento.
Il rischio da evitare a tutti i costi è che questa condizione di fragilità, di esclusione economica e sociale, di perdita di speranza e di prospettive si cristallizzi fino a diventare una situazione permanente, normalizzata, non più modificabile poiché sarebbe esiziale in un’era che invece richiede all’umanità un salto culturale gigantesco. Governi, manager e cittadini sono oggi chiamati ad agire le proprie decisioni con una spinta che superi le logiche del contingente e cambi per sempre l’orizzonte temporale del lungo periodo. Solo in questa prospettiva potranno intervenire nuovi modelli di sviluppo che comprendano principi di equità e giustizia sia intragenerazionale sia intergenerazionale. In un concetto multidimensionale che riguardi l’ambiente e il capitale naturale, la demografia, la produzione e il consumo, il funzionamento stesso della società, e che va quantificato anche in termini intertemporali.