Nell’epoca dominata dal LOL, ridiamo di tutto e senza ritegno né misura, dal racconto d'estate di Elkann al presidente degli USA che stringe la mano a un amico immaginario.
La sostenibilità tira, anche nel mondo finanziario. Nel suo consueto rapporto sulla stabilità finanziaria, il Fondo monetario internazionale (FMI) ha rivelato che oltre alla ripresa dell’economia, dopo il crollo legato alla crisi sanitaria globale, c'è stato un boom dei mercati di titoli legati agli standard di sostenibilità ambientale, sociale e di governance (Esg). Protagonista assoluta l’Europa che detiene quasi il 70% dell’offerta di fondi sostenibili globali.
Un trend che ha confini ben definiti: le attività in fondi sostenibili alla fine dello scorso anno hanno segnato una crescita record del 50% rispetto alla fine dell’anno precedente, con quasi 1.700 miliardi di dollari. Se è l'Europa al momento fare la parte del leone, molti sono i segnali di interesse crescente anche in altri mercati, come quello degli Stati Uniti, dove le vendite di fondi sostenibili hanno toccato i 50 miliardi di dollari. Più del doppio rispetto al 2019, complice anche la promessa di riforme green contenute nel programma del nuovo presidente Joe Biden.
Secondo gli esperti dell’istituzione di Bretton Woods, non ci troviamo di fronte a una bolla generata dalla situazione contingente: si tratta di un vero e proprio cambio di atteggiamento rispetto agli Esg da parte di larghe fasce di popolazione, sempre più consapevoli dei costi derivanti dai danni all’ambiente, dalla cattiva governance e dai conflitti. Secondo Tobias Adrian, direttore del dipartimento mercati monetari e dei capitali del Fmi, il primo fattore di crescita è proprio una vera allocazione di risorse da parte di istituzioni finanziarie e fondi di investimenti su questi titoli.
Tuttavia, nonostante la forte accelerazione che le tematiche ambientali, sociali e di governance hanno registrato negli ultimi anni anche in ambito finanziario, la strada da fare verso dei risultati che possano considerarsi realmente soddisfacenti, è ancora tanta, specialmente in Italia, dove sono ancora pochissime le pmi che scelgono su base volontaria di redigere la dichiarazione non finanziaria: meno di dieci, come conferma una semplice ricerca sul sito della Consob. Troppe dunque quelle che pur dicendosi sostenibili non ne hanno ancora colto l’importanza, come dimostra una recente inchiesta pubblicata dal settimanale di finanza e risparmio del Sole 24 Ore.
Va detto però che, se è vero che la redazione della Dnf è obbligatoria solo per le grandi aziende con un numero di dipendenti superiore a 500, è altrettanto vero che oggi giorno all’interno di un bilancio le informazioni non finanziarie sono divenute una voce sempre più importante per consolidare un dialogo esaustivo e convincente con gli investitori, con i soci della società e con gli altri stakeholder. Dovrebbe essere molto vicina la fase conclusiva dell’iter di revisione della direttiva europea Non-financial reporting, che ha proprio l’obiettivo di ampliare a molti altri soggetti l’obbligo di dedicarsi alla Dnf. Il che dovrebbe far comprendere alle piccole e medie imprese italiane il significato e il vantaggio di indicizzare e fornire al pubblico questo set di informazioni essenziali, più strettamente legate alla propria cultura d’impresa e al proprio modo di fare business non focalizzato al mero risultato economico.
Intanto però occorre diffondere e completare questo cambio di mentalità, sia in chi investe sia nelle aziende che bramano la fiducia degli investitori. Partendo dal presupposto che per essere realmente sostenibili non bastano dunque né le pubblicità evocative né gli annunci strombazzati se poi oltre la superficie non troviamo risultati comprovabili e rendicontabili. In caso contrario, si tratta di semplice greenwashing, una doppiezza che mercati e investitori sono - e saranno - sempre meno propensi a tollerare.