Questa condizione ha generato una rinnovata attenzione per la salute mentale delle persone e di conseguenza investimenti in risorse psicologiche e servizi per il benessere alimentando un dibattito mondiale intorno alla “cura di sé”. Ma la cura di sé da sola non soddisferà i bisogni psicologici delle persone mentre ci riprendiamo dalla pandemia. Dopo molti mesi di relativo isolamento, dobbiamo recuperare connessione e significato che tuttavia non deriva solo dal prenderci cura di noi stessi, ma anche dal prenderci cura gli uni degli altri. Questo emerge, secondo quanto ci rivela Zaki, dai molti studi condotti in questo periodo: alle persone alle quali in modo casuale è stato chiesto di spendere soldi per sé stesse o per qualcun altro, alla fine quanti hanno speso i loro soldi per gli altri hanno riferito di aver sentito un significato, un’autostima e una connessione maggiori.
I ricercatori che hanno condotto questi studi, quando hanno chiesto ai partecipanti alla fine di ogni giornata se avessero aiutato qualcun altro quel giorno e come avessero vissuto il loro atto di gentilezza, hanno individuato una maggiore soddisfazione nei giorni di dedizione agli altri, ma solo quando si sono sentite connesse al motivo per cui stavano compiendo quell’azione e alla persona che stavano aiutando.
In definitiva, la linea tra la cura di sé e la cura degli altri è più sottile di quanto potremmo immaginare: siamo psicologicamente interconnessi, in modo tale che nell’insieme aiutare gli altri è una gentilezza verso noi stessi, e allo stesso tempo curare noi stessi aiuta gli altri. Inoltre, a livello sistemico i benefici sono notevoli: empatia e comprensione dell’altro possono generare anche cambiamenti a livello politico, per via della capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi di altri uomini e donne che abitano la nostra società, allargando dunque gli orizzonti e i punti di vista possibili.
Un principio da ricordare ogni giorno – e non solo il 13 novembre nella giornata dedicata alla gentilezza – perché benefico: è provato infatti che nelle persone che hanno un atteggiamento empatico verso gli altri il cortisolo, che è l’ormone dello stress, si riduce del 23%. Ed è certamente saggio ricordarcene non soltanto nella nostra vita offline, ma anche in quella online, imbastita com’è di leoni da tastiera che si fanno scudo dell’anonimato che caratterizza parte delle nostre interazioni online.
La contrapposizione, il trolling, l’attacco diretto alle posizioni altrui sono all’ordine del giorno nell’utilizzo quotidiano dei social network. E neppure utilizzi apparentemente più mansueti sembrano esenti da stress. basti pensare alla ricerca commissionata da Facebook sull’utilizzo di Instagram da parte degli adolescenti, rivelata da un ex impiegata che ha lasciato l’azienda proprio per le conclusioni a suo dire non etiche tratte dal colosso dei social network: se è vero che un utilizzo intensivo di Instagram genera nei giovanissimi un senso di inadeguatezza e insoddisfazione, è altrettanto vero che proprio questo meccanismo li porta a utilizzarli sempre di più. Uno stato di cose incentivato, e non contrastato dall’azienda, per la evidente ragione che porta più user alla piattaforma e, in ultima istanza, introiti maggiori. Già, non può essere una priorità soltanto agire con empatia nei confronti degli altri. Occorre imparare a essere comprensivi anche con se stessi, poiché il benessere personale è il vero punto di partenza per creare delle relazioni sane e positive con gli altri.