“Non sapevo che il Colosseo fosse antico”, è questa la formidabile per quanto stupida scusa addotta da Ivan Dimitrov, colui che un paio di settimane orsono ha dato il via alla stagione estiva di aggressioni all’Anfiteatro Flavio. “Ivan+Hailey 23” è il profondo quanto imperdibile messaggio che il ventisettenne di origine bulgara ma residente a Bristol in Inghilterra ha sentito l’urgenza di condividere con l’umanità contemporanea tutta e anche, possibilmente, con i posteri.
Una tragicomica lettera di scuse
Mi vien da dire che in effetti vi è riuscito visto che il suo gesto è stato ripreso e condiviso a livello globale su Twitter, anche se quel che dovrebbe raggiungere la stessa ampiezza di diffusione, a mio parere, è la lettera che ha inviato in procura e al Campidoglio. Una missiva che per comicità rasenta quella di Totò e Peppino se non fosse che questi ultimi erano e restano dei mostri sacri per intelletto e per capacità di dissacrazione.
“Consapevole della gravità del gesto commesso – scrive il nostro Ivan – desidero con queste righe rivolgere le mie più sentite e oneste scuse agli italiani e a tutto il mondo per il danno arrecato a un bene che, di fatto, è patrimonio dell’intera umanità. Ammetto con profondissimo imbarazzo che solo in seguito a quanto incresciosamente accaduto ho appreso dell’antichità del monumento”.
Difficile non credergli. In effetti, un giovane di soli ventisette anni che venga a trovarsi in una anonima e semisconosciuta città detta Roma, nei pressi di un mucchio di vecchie macerie che migliaia di turisti tutt’attorno si ostinano – chissà perché – a fotografare, scelte oltretutto come set di innumerevoli pellicole cinematografiche molte delle quali colossal hollywoodiani pluripremiati, su quali basi questo giovane può minimamente sospettare che i suoi passi stanno solcando un patrimonio dell’umanità?
Giustificata dai suoi genitori
“È solo una ragazzina, non ha fatto niente di male”. Questa invece è la risposta che, a quanto si legge sulle pagine di cronaca, avrebbero dato i genitori della giovane turista svizzera sorpresa, e filmata da una guida turistica, a lasciare tracce di sé e del suo passaggio sempre sui muri dello stesso monumento. A distanza di sole poche ore, un altro turista, uno studente tedesco di diciassette anni accompagnato da un insegnante, è stato sorpreso a compiere lo stesso tipo di atto vandalico.
Tre vicende simili nel gesto profanatorio e nelle conseguenze penali e civili che ne seguiranno, ma tre differenti prospettive sulla realtà sociologica attuale. Per dirla con le parole, taglienti ma perfettamente attagliate alle circostanze, del poeta Trilussa: “la lumachella de la Vanagloria ch’era strisciata sopra un obelisco, guardò la bava e disse: già capisco che lascerò un’impronta ne la Storia.”
Che traccia di noi vogliamo lasciare?
Nessuno dei tre protagonisti si differenzia dal resto dell’umanità passata e presente nel bisogno intimo, comune e più o meno prepotente di lasciare tracce di sé. Tutti abbiamo desiderato e desideriamo che del nostro passaggio restino tracce. Se così non fosse non avremmo un mondo così come lo conosciamo. Non avremmo storia, arte, letteratura, architettura, impresa, economia, mercato, politica, moda… tutto ha una paternità, una firma: Omero, Fidia, Vitruvio, Giotto, Dante, Brunelleschi, Leonardo, Palladio, Picasso, Neruda, Gaudi, Gucci…
Se così non fosse non avremmo il perpetuarsi della vita di generazione in generazione. E dunque lasciare tracce del proprio passaggio non è male di per sé. È male non saper discernere il tipo di traccia che lasciamo o che lasciano i nostri figli, giustificandoci e giustificandoli per minimizzare le nostre responsabilità o peggio, perché abbiamo perso il senso della responsabilità e quello della misura.