La scuola non ‘serve’, la scuola ‘è’

Lettera al Ministro dell’istruzione e del merito, Giuseppe Valditara

Una risposta sferica al binomio lineare scuola-lavoro

 

Egregio Ministro Valditara,

recentemente Lei ha affermato che “la scuola serve per due cose. A formare alla libertà, alla capacità di far crescere cittadini maturi e responsabili. La scuola serve per formare al mondo del lavoro. Deve dare concretezza ai nostri giovani, oltre a quelle competenze trasversali e decisive per l’inserimento nel mondo del lavoro, come il saper lavorare in squadra, la gestione del tempo, il saper valorizzare i talenti di ciascuno”. Mi permetta, con rispetto per lei e per l’Istituzione che rappresenta, alcune riflessioni. E le faccio non certo da ideologo, ma da imprenditore, manager, genitore e cittadino. Non da nostalgico, ma piuttosto da scriteriato visionario. Da uomo che finora ha provato nel suo piccolo a costruire, servire, immaginare e contribuire a generare delle aziende che fossero anche delle comunità simili a scrigni di cultura.

La scuola non “serve”, la scuola “è”. Punto. È il luogo per eccellenza in cui la persona deve fiorire, il cuore pulsante di una società viva, il grembo dove una persona inizia a diventare se stessa, in cui alla libertà si educa non come obiettivo da raggiungere, ma come dimensione da vivere. Non uno spazio da cui si esce con un mestiere in tasca, ma un luogo in cui ci si risveglia al mistero della vita, al desiderio di capirla, trasformarla, amarla. “Formare alla libertà” non può essere messo sullo stesso piano, nello stesso luogo, del “formare a un mestiere”.

E non sono certamente io il primo a pensarla così. Quando, nel secondo dopoguerra, Adriano Olivetti diede vita al CFM – Centro di Formazione Meccanici – non credo pensasse alla scuola come anticamera della catena di montaggio, ma come fucina di umanità. Stava dando corpo a una visione: l’operaio pensante, l’essere umano completo. Lì, accanto ai torni e agli strumenti tecnici, c’erano aule di musica, corsi di letteratura, discussioni di filosofia. Non per distrarre, ma per formare menti libere e coscienze vive. Ma soprattutto persone nella loro interezza e integrità, che fossero capaci di comprendere meglio il mondo e iniziare a desiderare anche di trasformarlo, ciascuno per le proprie capacità di incidere.

Perché la vera domanda, Ministro, non è come preparare i giovani al mondo del lavoro È come creare le condizioni perché possano immaginare e costruire un mondo nuovo, in cui valga la pena non solo lavorare, ma vivere, condividere. La scuola, in una società viva, non “si adatta” – come ha detto lei – al mondo così com’è. La scuola deve avere il coraggio di metterlo in discussione. Di opporsi alla velocità che consuma tutto, all’algoritmo che decide il futuro, all’utile che sostituisce il senso. La scuola il mondo deve interrogarlo, poterlo criticare e, se necessario, anche ripensarlo e ridisegnarlo.

Perché così sia, serve una visione diversa. E questa visione ha un nome: Sferismo. Un nuovo orizzonte sociale, culturale ed economico in cui le persone sono viste come orbite interdipendenti, non come risorse da ottimizzare. Un paradigma che supera la logica lineare e verticale (tipica del vecchio capitalismo e del vecchio sistema educativo che è emanazione di un sistema sociale oramai inefficace), per approdare a una visione non più circolare ma sferica, perché tridimensionale: dove etica, tecnica, bellezza, spiritualità e amore si intrecciano in un progetto collettivo.

Questa visione non è astratta. È radicata in una logica economica che oggi chiameremmo “Economia Sferica”: non un paradigma lineare o – come va di moda oggi – circolare, chiuso su se stesso, ancora incapace di fare luce sui dilemmi del futuro, ma una soluzione funzionale al tentativo di rispondere alle pressioni e urgenze del presente. La società dovrebbe essere un organismo armonico, in cui ogni funzione — produttiva, culturale, sociale — coopera nel perseguire il Bene comune.

In questa economia “sferica”, scuola e lavoro non sono poli da collegare con cavi aziendali, ma funzioni vitali di un unico organismo sociale orientato al Bene Comune. Perché il compito della scuola non è quello di produrre risorse umane, ma di risvegliare esseri umani. Persone capaci di porsi domande. Persone capaci di amare il mondo, non solo di abitarlo. Persone capaci di scegliere, e non solo di essere scelte.

In un momento storico prevalentemente orientato all’individualismo, alla competizione, al consumo, serve una Scuola che agisca anche come isola di resistenza al pensiero unico materialista e scientista, elargendo ai suoi studenti dosi omeopatiche di innovazione sociale. Un luogo dove si rivendica il primato di una sfera culturale che sia definitivamente libera dal controllo esercitato su di essa dal potere politico-amministrativo e da quello giuridico che vorrebbero assoggettarla ad altre logiche eccetto quelle che, nella determinazione dei programmi di insegnamento, dovrebbero invece contemplare esclusivamente l’evoluzione umana. Altresì – altro tema enorme – andrebbe restituito alla famiglia il primato della libertà di scelta educativa dei propri figli.

Alla base di questa visione sta un’idea molto precisa di essere umano: unitaria, in cui testa (pensiero), cuore (sentimento) e mani (volontà) vengono educati insieme, fin dall’infanzia e nel rispetto dei tempi naturali di sviluppo di un essere umano; senza interferenze da parte delle sfere politica o economica. Perché, anziché “servire” oggi è necessario “essere”! È per questo che oggi “servono” esseri umani che abbiano menti educate alla ricerca costante di soluzioni ad alto impatto, cuori sensibili al senso più esteso del sociale, anime profondamente ecologiche. Esseri umani che siano animati da uno spirito cosciente.

Forse è giunto il momento di smettere di chiedere alla scuola di essere “utile”. E iniziare a chiederle di tornare a essere “viva”. Viva come i ragazzi che la abitano. Viva come le domande che la attraversano. Viva come il futuro che, in silenzio, le affida ogni giorno il proprio seme. Forse la riflessione da fare non è su cosa occorra che una persona sappia “fare” per mantenere l’ordinamento sociale e far progredire il modello economico esistente, ma quali disposizioni porta profondamente nel suo “essere” quella persona che è, che cosa può essere sviluppato in lei, e quali siano le sue aspirazioni più intime e profonde.

Solo così, Ministro, la generazione ventura apporterà forze sempre nuove all’ordinamento sociale preesistente e al sistema economico vigente. Anziché costringere la nuova generazione a diventare ciò che l’ordinamento già esistente vuole che essa sia, non è forse giunto il tempo di immaginare una sfera culturale che si interessi in principio della vita spirituale e di tutto quel che poggia sulle doti naturali del singolo individuo, e solo poi interessarsi a come sviluppare queste doti nella società al fine di perseguire un bene comune? Nel mondo che vorremmo in tanti, la scuola è un laboratorio di umanità, un orto interiore, una palestra di senso.

Lei, infine, parla anche di “gestione del tempo, lavoro di squadra, valorizzazione dei talenti”. E se cominciassimo a chiederci a “quale tempo” storico stiamo preparando i giovani? “Quale squadra” li aspetta, visto che non sappiamo riconoscere come nostro simile nemmeno più un vicino di casa o un compagno di giochi? “Quali talenti” verranno davvero riconosciuti in un sistema che misura tutto in termini di utilità? Non possiamo più accettare un’educazione ridotta alla sola tecnica, senza che accanto a essa fioriscano la musica, la storia, l’arte, la filosofia, l’amore, la pace, la spiritualità, il senso della vita, e persino il senso della morte. Sì, anche la morte. Perché chi non sa stare davanti al limite, col desiderio di comprendere cosa possa esserci ‘oltre’ di esso, non saprà mai essere veramente libero.

La libertà, Ministro, non nasce dalla competenza, ma dalla coscienza. Ed è in questa sottile, decisiva differenza che si gioca il futuro della scuola, del lavoro e dell’Italia intera: non basta “formare al lavoro”, occorre “educare al senso del lavoro”. Il lavoro, infatti, non può essere relegato a una semplice funzione economica. Il lavoro è – dovrebbe essere! – un’attività spirituale, sociale, politica. Nella visione che ci si auspica di vedere realizzata, il luogo di lavoro non è quindi solo un luogo di produzione, ma una comunità, un organismo vivente. Allo stesso modo, la scuola — se vuole davvero educare alla libertà — non può limitarsi a preparare i giovani a inserirsi nel mondo così com’è, ma deve dar loro gli strumenti per immaginarlo diverso, più umano, più giusto, più bello, più vero, …più loro.

È da questa stessa radice che germoglia il pensiero sullo Sferismo e sulla sua applicazione pratica in economia (l’Economia Sferica): un modello che rifiuta la logica verticale della governance dei sistema e lo sfruttamento lineare di persone e risorse, per immaginare impresa e società come forme armoniche, organiche, in cui le diverse dimensioni dell’umano — etica, tecnica, bellezza, spirito, aldilà — non si escludono, ma si abbracciano includendosi l’un l’altra. La “sfera”, in questo senso, non è solo una figura geometrica, ma diviene un simbolo politico e culturale: rappresenta l’unità nella pluralità, l’integrazione delle differenze, il superamento delle dicotomie che separano cultura e produzione, teoria e prassi, vita e lavoro, materia e spirito. Scuola e lavoro, allora, non saranno più poli da connettere, ma luoghi da armonizzare, dentro un orizzonte condiviso di senso e di futuro.

Ministro, mi permetta allora di concludere non con un’opinione ma con qualche domanda, che è poi ciò che una vera scuola dovrebbe sempre insegnare a fare: porsi domande. A cosa serve formare al lavoro, se prima non si è educati alla vita? Che libertà è quella che si misura in crediti formativi e produttività e non sulla consapevolezza di sé? Che cittadino è colui che lavora bene ma non sa lavorare per-il-Bene, che si appassiona ma non sa amare, che sa leggere ma non sa comprendere, che sa parlare ma non sa ascoltare in silenzio? Forse, Ministro, è finito il tempo in cui si chiede alla scuola di servire ed è iniziato il tempo in cui le si chiede di tornare a essere.

 

Con inquietudine per ciò che vedo, ma con gratitudine profonda per ciò che ancora possiamo scegliere di diventare, la ringrazio per l’ascolto.

Oscar di Montigny