Femminicidi …tra cronaca, simboli e disconnessione spirituale

Ogni volta che una donna viene uccisa da un uomo, il fatto di cronaca sembra subito diventare un rito collettivo cui in tanti vogliano necessariamente partecipare. Non si analizza un evento: si celebra un copione. L’uomo diventa spesso simbolo del male, la donna spesso simbolo della vittima. Si parla di “femminicidio” non solo come categoria giuridica, ma come verità assoluta, impermeabile al dubbio, immune alla complessità.

E così, la narrazione prevale sulla realtà. Il simbolo schiaccia prima l’individuo e poi la collettività tutta. Non interessa la storia, il contesto, la psiche. Conta solo ciò che rafforza un’idea, trasformandola in convinzione: la mascolinità tossica, l’oppressore per natura, la società patriarcale che sopravvive in ogni gesto, in ogni parola, in ogni sguardo. Ma siamo sicuri che sia così semplice?

Non serve forse una prospettiva che ci inviti a guardare oltre un sistema solo binario? A considerare l’essere umano come un sistema orbitale: fatto di equilibri, polarità, traiettorie in cerca – a volte disperata, a volte orientata – di centro. Ma la nostra epoca sembra aver perso questo centro. Vuole giudicare senza capire, condannare senza ascoltare. Non importa se dici: “non tutti i casi sono uguali”, “forse ci sono anche altre cause”, “forse dovremmo parlare anche della fragilità maschile, non solo della violenza”, senza però far diventare la prima giustificazione per la seconda. Basta questo per essere messi al bando. Perché oggi il vero reato è pensare.

Eppure i dati ci provocano. I paesi con più “femminicidi” sono quelli più emancipati, più liberi, più ricchi. Francia, Germania, Svezia. Cosa ci sta dicendo questa contraddizione? Che forse libertà, da sola, non basta? Che forse qualcosa di essenziale e vitale si è spezzato nel modo in cui ci relazioniamo?

Viviamo tempi accelerati, fragili, mercificati. Le relazioni sono diventate scambi rapidi, consumabili, reversibili. Il legame profondo è l’eccezione, non la norma. L’altro è spesso solo uno specchio da rompere quando non riflette più ciò che vogliamo vedere o crediamo di essere. In questo contesto, uomini e donne smarriscono il proprio asse e il proprio centro. L’uomo che uccide non è sempre un mostro patriarcale: spesso è un essere infantile, confuso, emotivamente sradicato. Un’anima disintegrata.

Questo certamente non giustifica. Ma dovrebbe un po’ spiegare. O almeno farci pensare. Perché cercare delle ragioni, delle cause all’origine di un effetto, non è per forza giustificare e ancor meno difendere: è cercare di vedere. Di comprendere. È ricercare un significato dentro l’ombra. Nel frattempo, milioni di relazioni sane esistono. Ma non fanno rumore. Non interessano a chi ha bisogno del conflitto per sentirsi nel giusto. Ma è lì che forse possiamo trovare una via d’uscita: nella semplicità di due persone che si scelgono, si rispettano, si ascoltano. Non perché lo impone un codice ideologico, ma perché sentono di essere due orbite che si attraggono e si rispettano, consapevoli dell’interdipendenza una dal’altra. E perchè tutto questo possa accadere, dovremmo riflettere se società e famiglia, oggi, siano all’altezza di questa sfida che i tempi ci impongono.

Forse abbiamo bisogno di un nuovo linguaggio. Uno che parli di energie, non di schieramenti. Di ferite da guarire, non di colpe da assegnare. Di ascolto, non di slogan. E allora: Cosa ci sta dicendo davvero questa violenza? È solo questione di potere, o c’è anche un vuoto più profondo, spirituale, che stiamo ignorando? Che idea di amore stiamo trasmettendo alle nuove generazioni? Che maschile e che femminile stiamo incarnando, in un’epoca che ha perso i propri riti interiori?
Cosa succede a una civiltà che ha smesso di cercare l’equilibrio? E se fosse il momento di tornare al centro della Sfera delle nostre esistenze?

Mi chiamo Oscar, e sono un padre di 5 figli di cui 4 femmine.