“Quello che farete al più piccolo è come se lo faceste a me!”

Il premio World Press Photo of the Year fa parte dei World Press Photo Awards, organizzati dalla fondazione olandese World Press Photo, e viene assegnato alla foto più iconica dell’anno. Oltre al World Press Photo of the Year assegnato dal 1955, una giuria composta da 10 membri assegna dal 2019 anche il premio World Press Photo Story of the Year. Questo premio viene conferito al reportage che in quell’edizione del concorso si è più contraddistinto per intensità fotografica ed importanza del contenuto. Gli autori vincitori di queste 2 categorie ricevono un premio in denaro corrispondente a 5.000 euro.

Il World Press Photo of the Year è conferito all’immagine che “… non è solo la sintesi fotogiornalistica dell’anno, ma rappresenta un problema, situazione o evento di grande importanza giornalistica, e fa questo in un modo che dimostra un eccezionale livello di percezione visiva e creatività”.

Quest’anno ha vinto uno scatto della fotografa palestinese Samar Abu Elouf per il New York Times, che ritrae Mahmoud Ajjour, un bambino rimasto gravemente ferito nel marzo 2023 mentre fuggiva da un attacco israeliano a Gaza City. Si era voltato per incitare la famiglia a proseguire, quando un’esplosione gli ha amputato un braccio e devastato l’altro. Da troppi mesi assistiamo alla crocifissione di innocenti.

Il Cristo Gesù disse “Quello che farete al più piccolo è come se lo faceste a me!”. Guardo quello scatto e resto attonito per quello che ancora gli umani fanno ad altri umani. Ma purtroppo non resto nemmeno più sgomento, stante le innumerevoli immagini che quotidianamente osservo da infiniti giorni sui canali che seguo oramai regolarmente per non dovermi più affidare ai soli canali mainstream, asserviti ad un appiattimento comunicativo che da dolore quanto è parziale e precario nella sua falsa verità.

Guidato dall’energia della Pasqua, che mi riporta alla speranza di una possibile eternità che origina nell’atto della resurrezione del Cristo, mi viene in salvo una memoria. Appare nella mia mente la figura di uno di quei corpi perfetti che nell’antichità venivano scolpiti nel marmo ritraendo Dei, Imperatori, Re, Eroi, Guerrieri. Pur sopravvissuti all’attacco del tempo, sono giunti a noi spesso privi di arti e teste, come gran parte delle migliaia di inermi bambini palestinesi morti, uccisi, nel conflitto. Ma quei busti ancora si impongono ai nostri occhi con tutta la loro maestosità, armonia e potenza.

Mahmoud mi appare improvvisamente come uno di loro. Riguardo quel suo corpo martoriato, sacrificato all’ignoranza e alla malvagità, e stavolta intravedo la stessa loro maestosità, armonia, potenza, e soprattutto dignità. E la Pasqua ritorna nuovamente in aiuto, mostrandomi in quel corpo anche l’essenza del Cristo rinato per incarnare la Fiamma. Per scolpire l’Eternità nella carne fragile.

Mi dico con forza che non voglio più cercare rifugi. Non voglio più temere il dolore. Non voglio più fuggire davanti alla croce che a volte le nostre esistenze ci impongono. Voglio attraversarla. Voglio rispondere alla chiamata. Voglio rinascere.

Voglio essere folle. Lo voglio perchè…

Siamo anelli di fuoco nella polvere.

Siamo ponti tra il visibile e l’invisibile.

Siamo statue spezzate che cantano la Vita.

Siamo semi di resurrezione nel ventre della morte.

Il mondo ci chiama folli.

Dio ci chiama figli.

Siamo nati per consumarci d’amore,

non per conservarci nella paura.

Non saliamo in alto.

Scendiamo in profondità.

Nel cuore della Terra.

Nel cuore dell’Uomo.

Nel cuore di Dio.

Chi è Mahmoud è eterno.

Chi è Fiamma, non può spegnersi.

Chi è Pietra Viva, non può sgretolarsi.

Chi è Cristo vivo in sé, non può morire.

Siamo Pasqua incarnata.

Siamo Resurrezione ambulante.

Siamo il battito eterno nel petto del tempo.