
In uno dei momenti più solenni che la storia contemporanea possa offrire — il funerale di Papa Francesco, che aveva dedicato tutta la sua vita a parole come pace, misericordia e fratellanza —, la scena che si è consumata tra i leader mondiali è stata quanto di più lontano si potesse immaginare da tutto questo.
Zelensky e Macron, seduti in un angolo soleggiato dei giardini vaticani, discutevano con l’aria di chi tenta disperatamente di vendere un vecchio orologio rotto all’amico di un amico appena conosciuto. Macron, elegante nella forma ma vuoto nella sostanza, lanciava idee su piani di pace tanto complessi quanto inutili, mentre Zelensky, consumato dalla stanchezza e dalla rassegnazione, annuiva come chi sa già che nulla cambierà davvero. Un incontro che sembrava più il tentativo di salvare l’immagine che di salvare un popolo.
Poi, all’interno della Basilica, nello stesso spazio sacro che poche ore prima aveva accolto la bara del Pontefice, Zelensky si trovava faccia a faccia con un altro pronto a dargli ordini. Due sedie rosse, l’oro scintillante sulle colonne di marmo: una scena costruita apposta per essere ripresa, rilanciata in pochi secondi al mondo intero, primi fra tutti dagli uffici stampa dei governi americano e ucraino.
Trump, privo di ogni decoro, incapace di percepire il peso del luogo e del momento, mostrava tutta la sua incapacità di elevarsi oltre l’interesse personale e il calcolo immediato. Zelensky, seduto di fronte a lui, non reagiva: forse perché, dopo tanti viaggi e tante promesse mancate, aveva capito che da certi uomini non si può ottenere nulla che somigli davvero al buon senso. Nulla, se non ulteriore vuoto. Il peso del loro silenzio assordante si sintetizzava in quel pensiero (romanesco) muto, che attraversava entrambi come una lama: “Hai rotto er cazzo!”
Ma il vero paradosso si stendeva tutto intorno a loro. In quella piazza, in quella Basilica, il corpo di Papa Francesco — al di là della sua legittimità canonica oggi tanto discussa — testimoniava, almeno nella forma, un’intera vita spesa a difendere i migranti, combattere il neoliberismo, denunciare l’individualismo esasperato, maledire la corsa agli armamenti.
Francesco aveva chiesto disarmo. Aveva chiesto giustizia sociale. Aveva chiesto cura della Terra. Aveva parlato di poveri mentre i ricchi applaudivano. Aveva invocato la pace mentre gli eserciti si armavano. Aveva supplicato i grandi della Terra di disarmare i gesti e le parole.
Eppure, in quella piazza lì, c’era solo ipocrisia. Capi di Stato in abiti scuri, che per anni avevano ignorato il suo grido, si inchinavano ora davanti alla sua bara, salutando più se stessi che lui. Parlavano di rispetto mentre accumulavano armi. Parlavano di cambiamento climatico mentre firmavano nuove trivellazioni. Parlavano di poveri mentre blindavano i confini.
Tutti, anche i più ostili a Francesco in vita, si erano travestiti per un giorno da suoi devoti seguaci. Una sobrietà di facciata, una maschera perfetta applicata per l’occasione. Ma se quel giorno avessimo vissuto come avrebbe richiesto la dignità del luogo e del momento, i leader non avrebbero stretto mani fredde né scambiato parole vuote.
Non si sarebbero seduti a trattare come mercanti, ognuno pensando a quanto ottenere per sé e per il proprio popolo (di cui, per altro, importa poco). Non avrebbero cercato di vincere. Non avrebbero cercato di prevalere. Non avrebbero cercato di spuntarla.
Se il funerale avesse seguito il vero spirito di quell’uomo, se la morte non fosse stata solo un evento mediatico, ma l’occasione per una conversione interiore, i leader non si sarebbero affrettati a stringersi mani sudate, a vendere future alleanze, a conquistare bottini politici.
Si sarebbero seduti in silenzio. Non un silenzio diplomatico. Non un silenzio strategico. Un silenzio vivo. Un silenzio umile. Un silenzio capace di ascoltare la voce del dolore, della speranza, della verità.
Avrebbero guardato dentro sé stessi, senza maschere, senza alibi, senza strategie. Avrebbero capito che il vero potere non sta nel dominare, ma nel servire. Avrebbero compreso che l’evoluzione superiore di ciascuno non è un lusso da mistici, ma una necessità urgente per salvare la Terra. Che senza disarmare i propri pensieri, senza disarmare il proprio ego, non ci sarà mai pace. Né sulla Terra, né nell’anima degli uomini.
In quel silenzio, forse, proprio quel giorno, davanti a una bara di legno semplice sotto il cielo eterno, sarebbe nato un altro futuro. Un futuro dove la grandezza non sta nel vincere, ma nel trasformarsi. In un mondo più saggio, vero, bello, buono e giusto, a ricoprire quelle posizioni sarebbero arrivati solo esseri umani che avevano già lavorato su sé stessi.
In quel mondo possibile, la morte di un Papa non sarebbe stata il contorno di trattative stanche, ma il seme di una nuova alleanza spirituale tra i popoli. I leader si sarebbero seduti in silenzio. Avrebbero lasciato che il dolore, il rispetto, la memoria insegnassero loro ciò che né le conferenze né gli eserciti potranno mai insegnare: che la vera forza nasce dalla trasformazione interiore, e che il primo compito di chi guida non è conquistare, ma elevare.
In quel silenzio, forse, avrebbero capito che curare la propria evoluzione superiore non è un lusso da filosofi, ma l’unico modo reale di essere utili al mondo. E forse, proprio quel giorno, sarebbe nato un altro futuro.