Mentre la nostra attenzione è concentrata sulla guerra in Ucraina, in molte parti del mondo le disuguaglianze aumentano.
Con il suo tweet su Minneapols «when the looting starts, the shooting starts» Trump getta benzina sul fuoco, tant’è che anche Twitter lo ha segnalato come violazione delle proprie politiche sull’esaltazione della violenza in base al contesto storico della frase, al suo legame con episodi violenti e al rischio di ispirare una simile azione.
Infatti, sembra che questa frase sia stata detta a una conferenza stampa del 1967 da un capo della polizia di Miami a lungo accusato di usare tattiche razziste.
Ma questo tipo di linguaggio, quali confini va tracciando nel mondo? Sono davvero confini protettivi, condivisibili e convenienti per tutti?
Ludwig Wittgeinstein diceva che i confini del proprio linguaggio sono i confini del proprio mondo, e siccome è proprio il linguaggio il codice primario di questa nostra epoca, è evidente il rischio e la potenzialità che esso possa trasformarsi da terreno di un gioco dialettico propositivo, positivo e evolutivo a campo di una sanguinosa battaglia involutiva dove, ahimè, gli sconfitti possiamo solo essere noi stessi, come individui, come società e come umanità intera.
Il caso Minneapolis ci ha messo di fronte alla drastica trasformazione di una metropoli fino a un attimo prima ritenuta serena e progressista, guidata da un giovane sindaco di sinistra e con a capo della polizia proprio un nero. Un attimo dopo ha mostrato alle telecamere di tutto il mondo le proprie viscere contorte da livore, rabbia e odio razziale. Ma ciò che quel tipo di tweet e quel tipo di narrazione non dicono è che la stragrande maggioranza dei manifestanti non è violenta, cerca di unire la società, aiuta a pulire le strade interessate dalle proteste.
In sostanza mentre la nostra attenzione si è concentrata su un manipolo di persone che saccheggiava alcuni negozi, al centro della città, davanti ai palazzi delle istituzioni si svolgeva una manifestazione molto più numerosa e totalmente pacifica. È davvero tutta colpa della pandemia e della crisi che ha lasciato senza lavoro milioni di persone tra cui Floyd? Confini così definiti non sono forse la conseguenza di una crisi politica, culturale, sociale e primariamente morale che appartiene a tutti e ci riguarda tutti?
«Un essere diventa veramente morale soltanto quando in lui si risveglia la sensibilità a tutto ciò che è collettivo, universale, cosmico - diceva il filosofo Omraam Mikhaël Aïvanhov - questa facoltà gli permette non solo di entrare nell’anima e nel cuore degli altri, ma anche (se gli capita di farli soffrire) di provare egli stesso il dolore che infligge a quegli esseri, e di conseguenza egli cerca di riparare.
Un giorno, gli esseri umani dovranno capire che tutto quello che fanno agli altri (il bene come il male) è anche a sé stessi che lo fanno. In apparenza, ogni essere è isolato, separato dagli altri, ma in realtà, sul piano spirituale, qualche cosa di lui vive in tutte le creature, in tutto l’Universo. Se questa coscienza universale si è risvegliata in voi, nel momento in cui agirete ai danni di qualcuno, sentirete che state facendo del male anche a voi stessi».
È questa secondo me la prospettiva, il vero tema, la vera questione su cui soffermarci e riflettere parlando di futuro. Credo che nulla cambierà se non decidiamo di inserire un gesto creativo, un atto volontario di discontinuità nella nostra vita. Sopravvivrà chi si evolverà nella direzione inequivocabilmente già segnata dal futuro che ci sta correndo incontro.
In questa epoca minata da incertezza, complessità e ambiguità, l’umanità intera deve trovare una direzione e può farlo solo con la bussola della gratitudine.