Cosa abbiamo imparato sul lavoro a distanza

Ognuno di noi probabilmente lo sospettava da tempo, ma anche i numeri lo certificano: siamo un popolo di incalliti automobilisti. Due abitanti su tre del nostro Paese possiedono la macchina. Una proporzione abnorme rispetto ad altri Paesi: in Italia il rapporto tra vetture e abitanti è infatti il più alto d’Europa, eccezion fatta per il minuscolo Lussemburgo.

 

Popolo di automobilisti, popolo di emissioni  

Facciamo due calcoli. La mobilità è responsabile di un quarto di tutte le emissioni di gas serra del nostro Paese. Il 93% di queste emissioni è causato dal trasporto su gomma, tre quarti dei quali arriva dalle automobili. Si tratta in sintesi di 6 chilogrammi di emissioni al giorno in meno per ogni abitante, oltre a 85 megajoule di carburante risparmiato pro capite.

Restuccia Giancarlo / Shutterstock.com

L’esperienza della pandemia qualcosa di buono dovrebbe aver lasciato in dote, come la familiarità con la pratica dello smart working. Senza arrivare al tragico immobilismo dei lockdown, possiamo comunque – e anzi, dobbiamo – ragionare sugli impatti benefici dello smart working in regime di normalità. Uno dei più evidenti è proprio l’alleggerimento della mobilità, la riduzione di anidride carbonica, polveri sottili, ossido di azoto, monossido di carbonio, ma anche di ingorghi estenuanti, stress e tutti gli altri ordinari affanni quotidiani che affliggono la vita di milioni di lavoratori e pendolari.

 

I benefici del lavoro a distanza

«Il lavoro a distanza è sempre più visto come un modello efficace in diversi paesi nell’ultimo decennio, principalmente grazie allo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a supporto delle comuni attività lavorative quotidiane. L’emergere della pandemia di COVID-19 ha rappresentato un momento cruciale per l’adozione del lavoro a distanza in molteplici settori, con effetti positivi sugli impatti ambientali causati dal pendolarismo quotidiano dei lavoratori» scrivono sulla rivista internazionale Applied Sciences alcuni ricercatori dell’ENEA, Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, in un lavoro di ricerca e indagine sui lavoratori a distanza nelle pubbliche amministrazioni in quattro diverse province italiane.

I benefici stimati per lavoratore sono notevolissimi: 600 kg di anidride carbonica all’anno, cioè il 40% in meno delle emissioni totali, il risparmio di 150 ore, 3500 chilometri di distanza percorsa e 260 litri di benzina. Ma non basta. «Il lavoro agile e tutte le altre forme di lavoro a distanza, tra cui lo smart working, hanno dimostrato di poter essere un importante strumento di cambiamento in grado non solo di migliorare la qualità di vita professionale e personale (…) e di ridurre il traffico e l’inquinamento cittadino», ma anche di «rivitalizzare intere aree periferiche e quartieri considerati dormitorio».

Esistono infatti conseguenze positive meno ovvie del lavoro a distanza. Se è facilmente intuibile come lo smart working possa ridurre il traffico sui tragitti principali del lavoro sui diversi territori, meno evidenti sono le conseguenze sui territori d’origine, di abitazione, degli smart workers. Un quarto del campione della ricerca sostiene che, nelle giornate di lavoro da casa, gli spostamenti per ragioni personali avvengono usando i mezzi pubblici o la bicicletta

 

Lo smart working alla prova dei fatti

Tutto molto bello, sulla carta. Ma là fuori, cosa succede realmente? In Italia le percentuali di chi sceglie di adottare il lavoro a distanza sono in calo. Stili manageriali più tradizionalisti sono soltanto una piccola parte della ragione, che dipende in larghissima misura dalle difficoltà di applicazione del lavoro agile alle logiche produttive delle piccole imprese, che rappresentano come sappiamo l’imbastitura del nostro tessuto produttivo.

Secondo l’Inapp l’assioma italiano è che più le imprese sono piccole, meno sono adatte al lavoro agile. L’84% dei lavoratori delle imprese fino a 5 dipendenti svolge mansioni che non possono essere svolte in remoto, percentuale che scende al 56,4% per quelle medie e al 34,2% per quelle con più di 250 addetti.

Anche nel settore pubblico le percentuali sono in calo: sono 570 mila i dipendenti pubblici che in questo momento hanno la possibilità di lavorare da remoto, ossia il 33% in meno rispetto allo scorso anno. Un trend avviato nel 2022: con una media di 8 giorni lavorativi da remoto al mese, soltanto il 57% degli enti pubblici offriva questa possibilità, il 10% in meno rispetto al 2021.

 

Una sfida sul terreno della humanovability

Per valutare con cognizione di causa il fenomeno è fondamentale distinguere le fasi emergenziali da quelle che non lo sono. In pandemia il lavoro da remoto era ovviamente una necessità spesso inderogabile e questo spiega le altissime, e probabilmente irripetibili, percentuali di adozione. Fuori dalla crisi, si tratta invece di una sfida di evoluzione culturale, che richiede il mettere in campo visione, risorse, energie, apertura all’innovazione e attenzione alla centralità dell’individuo nello sforzo di migliorare l’insieme, ossia tutto ciò che alimenta in maniera determinante il concetto a noi caro di humanovability.

Che si tratti di un ente pubblico o un’azienda privata, le soluzioni tecnologiche certamente non mancano, su tutte le piattaforme VDI, acronimo di Virtual Digital Interface, che permettono la replica da remoto del proprio pc lavorativo e un accesso ai dati affidabile e sicuro. Ma mettere in piedi infrastrutture tecnologiche adeguate alla complessità del proprio lavoro è, appunto, un’impresa anche culturale, che richiede autoconsapevolezza e lungimiranza. E’ su questo terreno che si gioca la capacità di valutazione dei benefici, degli impatti a breve e lungo termine, della individuazione dei budget e dei fornitori, delle personalizzazioni necessarie in base alle proprie peculiarità, oltre naturalmente al grande tema della formazione all’utilizzo di nuove piattaforme e all’adattamento a prassi lavorative parzialmente nuove.

E’ di pochissimi giorni fa la conversione in legge del decreto Milleproroghe, che contiene alcune disposizioni relative allo smart working, prorogato fino alla fine di giugno senza accordo aziendale. Se per i lavoratori fragili il diritto al lavoro agile non può essere limitato dalla compatibilità delle mansioni con la prestazione da remoto, obbligando il datore di lavoro a una conversione di mansioni per il lavoratore, viene ripreso il diritto allo smart per i genitori di under 14 (a condizione che non ci sia nel nucleo familiare un altro genitore che non lavora o che beneficia di strumenti di sostegno del reddito) e anche per i lavoratori ad alto rischio Covid, certificato da un medico, ma a condizione che la mansione sia compatibile col lavoro da remoto. Priorità di accesso allo smart sono accordate a disabili gravi, genitori di figli under 12 o figli con gravi disabilità, ma secondo le condizioni stabilite da accordi individuali o collettivi, mentre manca del tutto la possibilità di far svolgere attività di formazione anche a distanza.

Nel complesso, il lavoro a distanza non è dunque stato spazzato via dalla fine dell’emergenza, ma non è (ancora?) elemento chiave di quella rivoluzione culturale a cui ci chiamano a gran forza le crisi della nostra epoca.