Indossando la sua mascherina partita dopo partita, gesto atletico dopo gesto atletico, Osimhen ha fatto nascere e ha nutrito uno degli elementi simbolici più potenti dei nostri giorni.
La pandemia rischia di aggravare il processo di identificazione tra piacere e felicità. Lo sviluppo del settore degli influencer digitali è la prova che cerchiamo sempre più il primo che la seconda, con il risultato di essere sempre più inappagati e depressi.
Secondo Business Insider Intelligence, le attuali restrizioni atte a contenere la diffusione del Covid-19, porteranno le aziende a investire nel marketing digitale fino a 15 miliardi di dollari all’anno. Praticamente il doppio rispetto agli 8 miliardi del 2019. È facile immaginare che, con il perdurare della condizione attuale che ha fatto e continuerà a far cancellare molti lanci di prodotti e molti viaggi sponsorizzati da cui gli influencer umani traggono il proprio fatturato, una larga fetta di questi investimenti andranno nelle tasche di quelli virtuali.
Secondo OnBuy, i creatori di Lil Miquela, modella virtuale usata anche da molte case di moda del settore del lusso, quest’anno brindano a un guadagno di 11,7 milioni di dollari.
Superplastic, la società che produce Junky e Guggimon, influencer virtuali che su Instagram insieme cubano 2,3 milioni di followers, il mese scorso hanno raccolto 6 milioni di dollari.
Un potenziale enorme se si guarda questo mondo con l’occhio al fatturato. Un enorme depotenziamento umano se invece lo si guarda in ottica sociologica e antropologica.
Perché?
Iniziamo col dire che, essendo virtuali, non creano alcun problema, sono controllabili in senso assoluto, possono soddisfare in contemporanea richieste potenzialmente infinite poiché hanno il dono dell’ubiquità e dell’eterna giovinezza. Dunque, lavorare con loro sarà da un lato meno problematico e dall’altro più conveniente poiché oramai è comprovato che la loro irrealtà non rende meno credibile la loro capacità di influenzare preferenze e acquisti orientandoci su più fronti e in più luoghi a ricercare sempre più quei momenti di soddisfazione che derivano dai piaceri materiali. Soddisfazioni che durano poco e ci lasciano presto nuovamente inappagati.
Come spiega bene il dottor Robert Lustig, professore presso l’Institute for Health Policy Studies della California a San Francisco, nel suo libro «The Hacking of the American Mind»: il piacere e la felicità non sono la stessa cosa in quanto hanno origini differenti.
Il piacere dipende dalla dopamina e la felicità dalla serotonina. Per capirci, il primo neurotrasmettitore dice al nostro cervello: “mi sento bene, voglio ancora di più” mentre il secondo dice: “sono contento, ho ottenuto il massimo”. Cioè la dopamina sollecita una ricompensa mentre la serotonina appaga.
Secondo Lustig, l’aumento dei piaceri momentanei crea una dopamina cronica che riduce il livello di serotonina e, quindi anche la felicità. Molti economisti pensano che il miglior indicatore della salute di una società sia la felicità e non i soldi. Sappiamo tutti che il denaro non annulla l’infelicità o la depressione. Al contrario la costante ricerca di piacere crea dipendenze, ansia, depressione fattori che compromettono la capacità di essere felici.
Su cosa investire il nostro denaro e il nostro tempo per essere più felici non è solo una delle domande più importanti nella vita di un uomo oggi, è la regina delle domande per la generazione z, a brevissimo 2,5 miliardi di persone, che insieme ai millennials costituiscono l’enorme mercato al quale mirano i creatori di personaggi digitali.