Un fenomeno tra i più vistosi dell’anno in corso a livello globale è il cosiddetto Great Resignation o Big Quit, cioè il significativo aumento del numero delle dimissioni volontarie dal posto di lavoro. Le ragioni che spingono a questa decisione sono diverse e vanno dal burnout, alla ricerca di una attività che sappia garantire il benessere personale, al desiderio di gestire il tempo e il luogo del lavoro difendendo il proprio work-life balance.
Per capire la portata di quello che sta accadendo cito qualche numero: secondo gli ultimi dati del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti i lavoratori dimissionari in cerca di migliori opportunità a settembre sono arrivati a 4,4 milioni, 20 milioni dimessi tra aprile e agosto, altri, insoddisfatti della retribuzione e della qualità della vita, scelgono la via della protesta. Il Washington Post, per esempio, ha recentemente evidenziando che quest’anno negli USA ci sono stati almeno 178 scioperi, i più recenti quello di diecimila dipendenti del produttore di macchine agricole John Deere ma anche le proteste dei sindacati che rappresentano i trentuno mila lavoratori dell’assicurazione sanitaria Kaiser.
In Cina, dove le nuove generazioni più disincantate rifiutano i salari bassi offerti nelle fabbriche tanto da far lamentare una crescente carenza di lavoratori qualificati in ambito tech, un gruppo di attivisti ha lanciato una campagna online, Worker lives matter, contro gli orari di lavoro massacranti nelle aziende, sintetizzati nella formula 996: cioè un impegno lavorativo che parte dalle 9 del mattino e termina alle 9 di sera per 6 giorni alla settimana. Il gruppo di attivisti anonimi che ha creato la campagna ha invitato i lavoratori del settore tecnologico cinese a inserire, dichiarandolo, il proprio orario di lavoro in una banca dati pubblica. Anche se, come scrive Reuters, hanno risposto poco più di quattromila persone, banche dati di questo genere sono state create anche per altri settori compreso quello immobiliare. Lo scopo? Fornire alle persone uno strumento di consapevolezza su quali condizioni lavorative accetteranno nella scelta di un lavoro.
Nel nostro Paese, secondo il Ministero del Lavoro, nel secondo trimestre di quest’anno si sono verificate 484mila dimissioni volontarie che hanno fatto segnare un aumento dell’85 per cento rispetto al 2020. La motivazione che a quanto pare sta guidando questo trend è strettamente connessa con la diffusione, soprattutto tra le giovani generazioni, della consapevolezza che si vive una volta sola. Da qui la definizione di YOLO economy, you only live once per l’appunto. Un trend che ha oltretutto dato il via a un vero e proprio boom di aperture di nuove partite iva.
È stato anche detto che quel che stiamo vivendo è un momento di odio per il lavoro forse dovuto alle aspettative di molti di veder tornare i lavoratori dietro le consuete scrivanie e i soliti banconi dei bar, cosa che evidentemente non sta accadendo perché evidentemente il problema non è solo legato all’offerta retributiva, il problema è nelle condizioni tout court.
Una ricerca di McKinsey che ha coinvolto quasi 6mila persone in età lavorativa di Australia, Canada, Singapore, Regno Unito e Stati Uniti, ha rilevato che il 36% di chi si è licenziato non aveva ancora in mano un nuovo lavoro. Ed è proprio questo che caratterizza il nuovo fenomeno, che, diversamente dai precedenti cicli di regressione e ripresa, sta portando le persone a fare un vero e proprio salto nel buio.
Lo stesso studio rivela che il 40% dei lavoratori a livello mondiale è intenzionato a cambiare lavoro nei prossimi mesi e contemporaneamente che i datori di lavoro non hanno consapevolezza delle estreme difficoltà affrontate dalle proprie risorse in questi venti mesi e di conseguenza non attingono alle ragioni di questo trend per progettare il lavoro post pandemia.
Uno dei quesiti che ci hanno più coinvolti nel corso degli ultimi mesi è certamente quello legato alla prefigurazione del mondo post pandemia. Durante il primo lockdown, sull’onda emotiva sollevata della prima ora di un evento imprevisto e di proporzioni inimmaginabili, ci siamo tutti ripetuti “ne usciremo migliori”, salvo poi smentirci ed essere smentiti contemporaneamente. Dopo questi venti intensissimi mesi non sappiamo ancora dire come saremo, noi individui e noi società, al termine di questo periodo che sta dettando questi moti di grandi cambiamenti. Ma possiamo certo dire, con le parole usate da Papa Francesco nel radicale nonché coraggiosissimo discorso tenuto il mese scorso ai Movimenti popolari provenienti da cinque continenti, che «da questa crisi della pandemia non usciremo uguali. O ne usciremo migliori o ne usciremo peggiori, ma non come prima. Certamente vogliamo uscirne migliori ma per questo dobbiamo rompere i legacci di ciò che è facile e dell’accettazione passiva del “non c’è alternativa”, del “questo è l’unico sistema possibile”, quella rassegnazione che ci annienta, che ci porta a rifugiarci solo nel “si salvi chi può”».
Perché il futuro dell’umanità è in gran parte nelle nostre mani, nella nostra capacità di sognare insieme, cioè – come dice Francesco – di organizzare, di promuovere alternative creative con la consapevolezza che i sogni sono sempre pericolosi per quanti difendono lo status quo, perché mettono in discussione la paralisi che l’egoismo del forte e il conformismo del debole vogliono imporre.
Dunque, ancora una volta ci troviamo seduti su una polveriera che se non fa esplodere il turnover di certo mina sia il clima sia l’efficacia sia la motivazione nelle aziende e nelle organizzazioni. La partita è di quelle epocali e certamente sarà vinta da quanti saranno capaci di attrarre i talenti in fuga e di farli crescere investendo in competenze. Cioè permettendo all’individuo lavoratore, citando ancora una volta Francesco, “di fiorire”.