L'incontro organizzato a Fiume Veneto da PordenonePensa è stato un'occasione per confrontarmi con un pubblico attento e sensibile sul grande tema della sostenibilità nelle organizzazioni.
Pochi giorni fa l’ex presidente di una potente lobby statunitense delle armi, David Keene, insieme allo scrittore John Lott, sostenitore del diritto all’autodifesa, è salito sul classico palco dove normalmente negli stati Uniti si pronunciano i discorsi ai neodiplomati. La notizia è che hanno parlato del diritto all’uso delle armi di fronte a una platea composta esclusivamente da migliaia di sedie vuote, pensando che l’assenza degli studenti fosse una misura di sicurezza dettata dai tempi di pandemia.
In realtà, così come erano inesistenti i diplomati che avrebbero dovuto occupare quelle sedie, era fittizia anche la scuola intitolata a James Madison, il presidente che sostenne l’introduzione del Secondo emendamento, quello che garantisce il diritto all’autodifesa, principio pensato per autorizzare i cittadini americani a difendere il Paese da un eventuale colpo di Stato ma diventato nel tempo il viatico all’acquisto indiscriminato di armi. Il discorso di lode al presidente e fondatore della scuola e alla sua visione del ruolo dei cittadini armati è stato così pronunciato da due testimonial inconsapevoli della verità dei fatti: si trattava infatti di una manifestazione di protesta ordita da Change the Ref, un’organizzazione che si oppone all’uso delle armi.
Fondata da Patricia e Manuel Oliver in memoria del figlio Joaquin, vittima della strage alla scuola di Parkland avvenuta nel 2008, Change the Ref ha organizzato questa manifestazione per ricordare le 3.044 giovani vittime delle armi che si sarebbero diplomate quest’anno, la cosiddetta “Class Lost 2021” che non ha potuto vivere una delle giornate più importanti e simboliche per i giovani. Ma anche per chiedere all’opinione pubblica americana, che ha potuto vedere il filmato dell’evento in rete, una maggiore sensibilità al tema e una maggiore mobilitazione per contrastare il fenomeno delle stragi.
Pur nella complessità organizzativa della messa in scena, il messaggio è oltremodo semplice e chiaro: in chi subisce una tragedia simile, da quel momento in avanti non si offuscherà mai la consapevolezza dell’ingiustizia subita. Della perdita, insieme al proprio figlio, nipote o fratello che sia, anche delle sue potenzialità. Di ciò che sarebbe stato e non sarà. Della vita che avrebbe potuto avere e non avrà. Dell’infinita gamma di possibilità individuali, familiari e sociali interrotte da un gesto inconsulto.
Quel che invece semplice non è - tant’è che il cambiamento non è ancora avvenuto in millenni di storia - è la comprensione del ruolo significativo che ogni individuo può avere nell’indirizzare le scelte sociali, quindi pubbliche. A ogni singolo evento tragico ci commuoviamo, indigniamo, scagliamo contro il colpevole, la politica, l’amministrazione pubblica, le forze di sicurezza e via col dire, ma questo accade a caldo. Ondate che poi svaniscono e cadono nel dimenticatoio. Va detto chiaramente però che il disinteresse, il non occuparci di qualcosa, il non prendere posizioni nette, è un preciso atto politico, esattamente come lo è esprimere una preferenza. Dunque, di fronte al caso di cui stiamo parlando, le stragi dovute all’uso indiscriminato di armi di facile reperimento, in cima alla lista dei colpevoli dobbiamo mettere il nostro atteggiamento ponziopilatesco.
È tempo di capirlo: non scegliere è un atto politico decisivo tanto quanto scegliere. Soprattutto in un mondo globalizzato come quello in cui viviamo.