Mentre la nostra attenzione è concentrata sulla guerra in Ucraina, in molte parti del mondo le disuguaglianze aumentano.
Avete visto il video in cui una ragazza utilizza i propri capelli lunghi per crearsi una maschera? Se non lo avete ancora visto, cercatelo in rete, ne vale la pena! È una sorta di tutorial che non ha alcuna valore pratico se intendiamo costruire una maschera come strumento di difesa da gas e lacrimogeni, ma è simbolicamente forte e potente sia nel quadro politico di riferimento che è la protesta ad Hong Kong, sia se lo trasliamo in quello più universale della democrazia e dell’etica.
Perché dico questo? Perché se ci pensate, che ad Hong Kong scelgano l’ombrello o i capelli del tutorial o ogni tipologia, colore e forma di maschera, per manifestare la propria protesta, siamo comunque di fronte a un oggetto volutamente e simbolicamente interposto tra l’occhio del governo il proprio spazio personale che poi in forma pratica si traduce nella distruzione dei lampioni intelligenti.
Infatti, sin dall’inizio i manifestanti hanno mirato sistematicamente a neutralizzare ogni tipo di telecamere partendo da quelle fuori dagli edifici governativi, coprendosi il viso. Per il sospetto, e qui non importa fornire prove se sia più o meno fondato, che i lampioni non siano stati installati per controllare la qualità dell’aria o altre amenità, quanto perché funzionali al riconoscimento facciale e di conseguenza utili alla sorveglianza digitale di massa. Per questa ragione chi protesta si copre come meglio può e protegge la propria identità al riparo di un ombrello o di una maschera. Il New York Times ha ben centrato il nocciolo della questione: l’identità è un’arma.
Dal punto di vista di Pechino la partita si gioca e si vince potendo accedere all’identità di ogni singolo manifestante, dal punto di vista di chi protesta per i propri diritti e per la democrazia, proteggere la propria identità è una condizione altrettanto necessaria per concorrere alla riuscita finale della lotta sociale intrapresa per la libertà.
Molti osservatori internazionali ed esperti di dinamiche socioculturali, ritengono questo momento storicamente cruciale nel cammino verso la consapevolezza che il riconoscimento facciale rappresenti realmente un pericolo per tutti. E noi, italiani e occidentali in genere, quanto abbiamo capito di questa protesta? Quanto consapevoli siamo che in quella regione del Mondo, in quella piccola parte della collettività, unitamente alla lotta politica è appena partita anche una reale, eclatante, contestazione al pensiero tipico della Silicon Valley di poter fare accettare la sorveglianza digitale all’umanità, come un fatto inevitabile, cioè senza doverne prima discutere democraticamente?
Ricordiamoci che uno dei quattro driver per il futuro è l’Etica. Risvegliamoci da una visione che per decenni ci ha spinti e relegarla a un ruolo troppo aulico per essere scomodato nelle piccole cose della vita. Mai come oggi si materializza tra i beni di base che le persone vogliono inserire nel proprio calmiere. L’Etica è oggi pretesa a ogni livello dell’attività umana tanto da essere usata come leva capace di interferire nei progetti delle aziende al fine di indurle verso una nuova catena del valore che deve necessariamente comprendere la fiducia, la fedeltà, la condivisione, la sostenibilità, la profondità, l’universalità e l’essenzialità.
Su questo terreno di gioco il web è un elemento decisivo nella ricerca delle risposte, poiché è molto più veloce e credibile di quanto qualsiasi azienda o istituzione o governo sappiano fare. Prova ne è la rapidità con cui il tutorial ironico della ragazza che si maschera con i propri capelli è comparso e la viralità con cui è rimbalzato ovunque, così come rimbalzano di commento in commento, anche i filmati in cui i lampioni intelligenti vengono “combattuti”.
Che l’individuo ridarà priorità a ciò che è veramente rilevante, cioè esso stesso, è solo una questione di tempo. Una questione di maggiore o minore velocità di reazione e quindi di azione. Ma è fuori di dubbio che succederà. Questa vicenda ne è la prova. Questa vicenda contraddice un’idea ritenuta oramai conclamata secondo la quale è la tecnologia a imporre i suoi cambiamenti all'uomo, non viceversa. Lo fa affermando che esiste un viceversa. Che la corsa alla tecnologia si ferma se questa non ha un orientamento.