L'incontro organizzato a Fiume Veneto da PordenonePensa è stato un'occasione per confrontarmi con un pubblico attento e sensibile sul grande tema della sostenibilità nelle organizzazioni.
Ho notato che negli ultimi tempi si sta tornando a interrogarsi sul lessico usato per parlare di pandemia. Una delle più recenti letture è stato un editoriale di un noto accademico e linguista che dalle pagine di un altrettanto noto settimanale italiano ha detto infatti: «quanti contagi si sarebbero evitati se all’inizio non si fosse parlato di influenza? Quanto sarebbe diverso oggi il comportamento delle persone se fin dall’inizio avessimo parlato di “mascherine salvavita” e “distanza di sicurezza”?».
Non è certo la prima volta che mi capita di sottolineare un uso non solo improprio ma anche dannoso, delle parole. Purtroppo dimentichiamo troppo spesso che le parole sono come l’atomo essenziale di quella materia che è il nostro naturale processo di comunicazione: sia interiore, con noi stessi, sia esteriore, con gli altri e con l’ambiente circostante. La parola è una forma vivente, una vera e propria entità unicellulare che non vive nel solo istante in cui viene pronunciata. La parola è il principio primordiale della creazione.
«In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» ci dice l’Apostolo Giovanni, ossia: prima della creazione del mondo, prima di ogni cosa, da sempre, esisteva il Logos. Pertanto, possiamo concludere che la Parola preesiste a ogni cosa. È la Causa Prima.
La parola dunque è il seme della possibilità. Quella possibilità che ultimamente sta venendo invece rimossa dalle nostre teste e dai nostri cuori a causa di un sistema che ci vorrebbe sempre più passivi e deresponsabilizzati rispetto a tutto quanto sta accadendo attorno a noi. Non voglio addentrarmi in commenti antipatici sul comportamento di questo o quel rappresentante politico oppure di questa o quella categoria sociale, perché appunto oltre che antipatico sarebbe totalmente sterile. Né esortare la politica e le parti sociali all’unità, molti illustri rappresentanti delle più alte cariche dello Stato mi hanno preceduto e oltretutto sarei fuori luogo.
Nel mio ruolo di uomo, di cittadino e di manager, vi è certamente quello di richiamare l’attenzione sul fattore responsabilità individuale che è proprio uno dei fattori centrali di questo viaggio che siamo chiamati dalla nostra epoca a intraprendere. La responsabilità che ognuno di noi, compresi me e te, siamo oggi spinti ad assumerci. Una responsabilità che prima di tutto è un passo indietro rispetto alle nostre convinzioni, una possibilità di ripartire da noi stessi, di scansare quell’eterno bivio e decidere cosa essere, prima ancora di decidere cosa poter fare.
Il linguaggio non è un territorio neutro ma una zona di guerra poiché le parole non solo rappresentano e descrivono la realtà ma la giudicano, la inventano, la edificano o la abbattono, la interpretano e facendolo spesso ce la offrono come indiscutibile e unica verità. È un’arma antica e micidiale che l’umanità ha usato in tutte le battaglie: da quelle politiche a quelle culturali a quelle religiose a quella tra sessi... Nel pubblico come in seno alla dimensione privata con le parole si costruiscono le immagini proprie e degli avversari.
Ma il Logos è il principio di tutto e come tale può originare un nuovo lessico. Per questo quando dico che prima ancora di decidere cosa possiamo fare dobbiamo decidere cosa vogliamo essere. Il nostro linguaggio dà origine al mondo e alla rappresentazione di esso che diamo alla nostra prossimità. I tempi sono maturi affinché ci si assuma la responsabilità di orientarlo al Bene dell’Insieme.