La scorsa settimana abbiamo appreso tutti la notizia che a vivere e abitare e consumare questa nostra Terra siamo più di 8 miliardi di persone. Otto miliardi di abitanti nel mondo è un numero che parla di sovrappopolazione globale, che ci presenta il conto di un peso eccessivo per un sistema finito, che rilancia un’eco di allerta e di preoccupazione per un domani che nasce da un oggi già gravido di povertà, di disuguaglianze, di incertezze sociali, economiche, politiche e climatiche. Un numero che rappresenta di sicuro un grande cambiamento.
Siamo tuttavia certi che si tratti di una minaccia e non sia invece da ritenersi come un’opportunità?
Il declino demografico globale
Gli studi demografici ci dicono che il grande momento di definizione del 21° secolo avverrà tra circa tre decenni, quando succederà che la popolazione globale inizierà a diminuire. “Quest’ultima affermazione potrebbe stupire molti di noi – afferma l’ultima ricerca Ipsos – siamo abituati ad ascoltare gli effetti negativi della sovrappolazione, in termini di distruzione dell’ambiente e del pianeta, ma la popolazione non sta aumentando fuori controllo. Oggi l’umanità ha raggiunto gli 8 miliardi di abitanti e avrà difficoltà ad arrivare a 8,5 miliardi prima di precipitare in declino”.
Gli studiosi, dunque, ci raccontano un futuro nel quale si assisterà a un declino demografico globale. Un futuro nel quale la popolazione mondiale perderà l’equivalente di tre Paesi delle dimensioni degli Stati Uniti in meno di un secolo. E ci dicono anche che i fattori chiave che determineranno questo scenario sono l’urbanizzazione, il tasso di natalità – sul quale la pandemia ha avuto un impatto significativo – e l’invecchiamento.
La vita in città e l’emancipazione femminile
Dobbiamo sapere che la più grande migrazione della storia umana è avvenuta nell’ultimo secolo e continua ancora oggi, si tratta di persone che si spostano dalla campagna alla città. Nel 1960 in una città ci viveva giusto un terzo dell’umanità, oggi quasi il 60%. Spostarsi dalla campagna alla città significa adattarsi a un nuovo stile di vita in cui il prezzo da pagare, per le famiglie numerose, è ancor più elevato.
Un ulteriore aspetto è dato dal processo di emancipazione femminile che ne consegue: trasferirsi in città ne muta la prospettiva e le mette in condizione di accedere a una versione diversa della vita rispetto a quella che le loro madri e nonne vivevano in campagna. Oggi le donne hanno molte più probabilità di aver accesso a un’istruzione, di fare carriera e di essere informate su prevenzione e metodi contraccettivi. Il risultato, inevitabile, è un tasso di natalità più basso e questo rappresenta il motivo per cui si hanno meno figli. L’età media delle donne che diventano madri si è dunque alzata, mentre le gravidanze adolescenziali sono diminuite drasticamente.
Nella maggior parte dei Paesi sviluppati – dice il report – oggi il tasso di natalità delle donne oltre i 40 anni ha superato quello delle donne di 20 anni e più giovani. Affinché l’umanità si mantenga semplicemente stabile, c’è bisogno di un tasso di natalità di 2,1. Questo è chiamato il tasso di sostituzione naturale della popolazione ed è lo scenario in cui ci sono abbastanza nascite per sostituire le morti che si hanno ogni anno. Dal 1960, il tasso di natalità nei dieci Paesi più popolosi è diminuito di oltre la metà e in 8 di questi 10 Paesi è già al tasso di sostituzione naturale o al di sotto.
La crescita della popolazione mondiale attuale, dunque, non sta avvenendo in relazione al numero di nascite, ma all’allungamento della vita: si vive di più, ma allo stesso tempo il mondo invecchia.
“Le forze che guidano questo declino sono già in atto e ne percepiamo gli effetti in molti aspetti della nostra vita quotidiana – prosegue Ipsos – Inoltre, con l’avvento della pandemia Covid-19, il declino e la diminuzione della popolazione potrebbe iniziare ancor prima”.