“Questa nostra terra, che un tempo ci sembrava infinitamente grande,
deve essere considerata nella sua piccolezza.
Viviamo in un sistema chiuso,
dipendenti gli uni dagli altri e dipendenti tutti dalla terra stessa.
Tutto ciò che ci divide è infinitamente meno importante del pericolo che ci unisce.”
Con quasi due secoli di anticipo, Darwin esprime una visione lucidissima di un mondo che sostanzialmente parrebbe essere lo stesso ancora oggi: un terra più piccola di quanto sembri a coloro che la abitano; un pianeta-sistema fatto di infinite connessioni; una realtà in cui ognuno (ogni uomo ma, ancor meglio, ogni essere) è portatore di esigenze e di istanze che lo rendono unico e diverso da tutti gli altri suoi simili. Pur immaginando di comprendere la valenza dell’affermazione conclusiva di Darwin (“…tutto ciò che ci divide è infinitamente meno importante del pericolo che ci unisce”), credo che il pericolo più grande che ci debba unire sia il rischio di non avere nulla che ci unisca.
Non credo, infatti, che solo attraverso la rivendicazione delle differenze si possa pensare di andare molto lontano lungo il cammino che abbiamo ancora davanti a noi. Piuttosto, credo che, pur nella diversità dei singoli che si incammineranno, la via che dovremo percorrere da ora in avanti debba essere una via comune, condivisa e orientata per tutti verso un’unica aspirazione: arrivare a Nord.
Rimanendo nella metafora darwiniana, penso che il futuro sarà soprattutto (…solo?) di chi riuscirà a evolvere in tal senso, tenendo sempre presente due considerazioni. Innanzitutto che l’evoluzione è in realtà un processo casuale. Il numero 22 di NEWTON (l’edizione di dicembre-gennaio) titolava in copertina “Un uomo per caso” e aggiungeva “…nella sua corsa evolutiva, l’Homo Sapiens ha primeggiato su altre specie, anche di suoi simili, e superato prove terribili; ma la sua affermazione non è il risultato di qualità eccezionali. A fare la differenza sono state circostanze fortuite che lo hanno favorito. Una piccola variazione e saremmo diventati materiale per i libri di storia. Di qualcun altro.”
La seconda considerazione di cui dobbiamo tenere conto è che la selezione è invece un cambiamento pilotato in vista di un obiettivo (per esempio produrre più latte per la propria progenie, avere una certa livrea per mimetizzarsi, ecc…). Ed è dalla selezione che traggono origine le nuove razze, quelle più evolute, cioè quelle più capaci di adattarsi al mutamento dell’insieme a cui appartengono e dell’ambiente in cui vivono.
Come ho già avuto modo di affermare nel post precedente (“Epoca di cambiamenti o cambiamento d’epoca?”) penso che lo scenario che ci apprestiamo ad affrontare sia veramente rivoluzionario, anche dal punto di vista tanto caro a Darwin, quello evoluzionistico. Nell’affermarlo, ribadisco quanto già detto in passato:
[twittami] non ci aspetta un’epoca di cambiamenti ma un vero e proprio cambiamento d’epoca. [/twittami]
La meteora è caduta e il cambiamento è in corso. A questo punto una domanda sorge spontanea: appartengo alla razza che si estinguerà oppure ho già in me i geni della razza che, perché in fase evolutiva, resterà? Quali esemplari o razze della nostra specie si estingueranno (dato che credo che la nostra specie sopravviverà a qualsivoglia evento fra quelli che ci stanno prospettando) e quali invece sopravviveranno al cambiamento epocale?
Sopravviverà chi si evolverà nella direzione inequivocabilmente già segnata dal futuro che ci sta correndo incontro: chi saprà coniugare nella propria vita le direttrici “Relazione” e “Unicità”; chi quindi diventerà profondamente consapevole della forza dell’Unità nella diversità.
Nella metafora evoluzionistica, proprio questa potrebbe essere la nuova razza della nostra specie. Non più (…finalmente!) una differenziazione di razze fondata sulla ricerca della supremazia di un colore della pelle, di un credo, di un partito, bensì una manifestazione di chi saprà meglio adattarsi al vero cambiamento che il mondo ci chiede: sentirsi unici ma parte integrante di un Insieme che da noi dipende e da cui indissolubilmente noi stessi dipendiamo. Il momento storico che stiamo vivendo che, con una certa miopia (come abbiamo condiviso in molti dei post precedenti), potremmo definire ‘critico’, in realtà potrebbe essere la nostra grande opportunità.
Forse la più grande opportunità che una generazione potrebbe auspicarsi di poter possibilmente cogliere per non dover invece rimpiangere la grande occasione perduta. E un’opportunità, proprio in quanto tale, non ha un segno. Le opportunità non sono buone o cattive, fortunate o sfortunate; le opportunità sono e basta. Sta a noi farne qualcosa, possibilmente qualcosa di utile; altrimenti l’opportunità si doterà essa stessa di un proprio segno (“+” o “–” che sia) in maniera accidentale oppure perché datole dalla moltitudine (e quindi anche per conto nostro), poiché siamo tutti membri di un insieme di cui facciamo parte. Bhè …
io preferisco diffidare dell’accidente
E comunque non amo affidarmi a dove la massa vorrebbe condurre anche me; tanto più che in questo periodo, guardandomi attorno è facile intuire dove tutto ciò mi porterebbe.
A tal proposito ho trovato un estratto di pochi minuti di un bellissimo discorso di Jiddu Krishnamurti, che ci invita all’urgenza di un cambiamento delle nostre coscienze.
Krishnamurti certamente ci provoca ma riconosce al genere umano anche una grandissima dignità: la dignità del libero arbitrio. Ci provoca, perché rimette a noi stessi, ciascuno per sé, la possibilità di determinare un cambiamento. Anch’io credo che dipenda veramente da noi; ma non solo lo credo, ne sono fermamente convinto. Al contempo condivido una condizione di urgenza perché (questo veramente sì!) se è vero che ci è concessa la possibilità di decidere, al contempo non ci è più concessa la possibilità di aspettare o rimandare.