Umberto Eco diceva che i vocabolari andrebbero letti come si leggono i libri. E in effetti coglieva nel segno perché il loro bello è che sono più vivi di quanto riusciamo a immaginare e raccontano più storie di quante ne possa contenere un libro qualsiasi. Questo perché sono proprio le parole la raffigurazione di tutti i mutamenti che avvengono nelle società, sia quando perdono efficacia o escono dal lessico sia quando cambiano significato o scelgono altre strade, sia anche quando al contrario fioriscono in neologismi e arrivano a occupare spazi nuovi nel linguaggio collettivo.
Smombie, il sonnambulo dello smartphone
È questo il caso, per esempio, della parola “smombie” che è entrata di recente a occupare un posto nell’enciclopedia Treccani e che, composta da “smartphone” e “zombie”, indica colui che cammina per strada senza alzare lo sguardo dallo smartphone, rischiando di inciampare, scontrarsi con altre persone, attraversare la strada in modo pericoloso. L’assimilazione di questo neologismo nel dizionario più blasonato d’Italia, avvenuta in pochissimi anni dalla sua prima comparsa nel dizionario tedesco nel 2015, è segno evidente di quanto l’uso dello smartphone anche in strada in circostanze ostili e rischiose sia diventato una vera e propria dipendenza. Un uso, tra l’altro, che è facile pronosticare continuerà a mantenersi crescente nel tempo proprio perché concatenata con la nomofobia (No Mobile Phone PhoBIA) cioè la paura di perdersi qualcosa in quell’eventuale attimo di lontananza dallo schermo o di disconnessione. Una paura agli occhi degli smombie più concreta e più forte di quella dei pericoli che si corrono attraversando o camminando nel traffico senza guardare.
Le parole possono creare o distruggere
Come la creazione di nuove parole ci racconta nuove realtà e ogni nuova dinamica di pensiero e di azione che sottendono alle società contemporanee, parimenti la scelta di un certo tipo di lessico ci racconta la realtà e le dinamiche intellettuali e morali della persona che ne fa uso. Il fatto che tra chi parla e chi ascolta si instauri un flusso capace di polarizzarsi in funzione di ciò che si dice ma anche di ciò che si comprende nell’ascolto, dota la parola dell’enorme capacità di creare o distruggere. Se prendiamo ad esempio parole come “nazione”, “sovranità”, “natalità” o “indipendenza”, e le mettiamo in un contesto di storici, economisti e scienziati politici, esse con buona probabilità saranno ricevute come neutre, ma se le buttiamo in un agone estremamente politicizzato non faticheranno a intridersi di sapore fascista. È perché risentono del contesto culturale. Un esempio molto significativo mascherato da polemica, è stato chiedersi a furor di popolo se fosse giusto non volere esser chiamata arbitra come ha fatto la prima donna a dirigere una partita di serie A.
L’ultracentenario Morin: passiamo dalle parole ai fatti!
Qualche giorno fa il centounenne filosofo Edgar Morin, scriveva su Twitter che la battaglia delle parole è fondamentale in politica perché è attraverso le parole che conquistiamo territori ideologici. Ma una volta conquistati, occorre agire concretamente, come teorizza nel suo ultimo libro “Svegliamoci!” (da poco pubblicato dall’editore Mimesis) nel quale indica i pilastri di una possibile politica diversa che si occupi, citando Paolo Pagliaro, “dell’energia privilegiando le rinnovabili, dell’acqua disinquinando fiumi, laghi e oceani; della città favorendo zone pedonali, trasporti pubblici elettrici e sviluppando quartieri ecologici conviviali; delle campagne facendo regredire l’agricoltura industriale che rende sterili i terreni e standardizza prodotti poveri di vitamine, dell’economia assicurando una regressione costante dell’onnipotenza del profitto; dell’istruzione che dia nuovo impulso alla laicità e restituisca agli insegnanti la loro grande missione umanista; delle riforme dello Stato che lo sburocratizzi e lo liberi dall’assedio delle lobby private parassitarie; del riconoscimento della piena umanità dell’altro.” E invece, anziché buttarci nella mischia per pretendere questo genere di politica, ci scontriamo all’ultimo sangue sull’opportunità dell’uso dell’articolo maschile o di quello femminile prima della parola “presidente”.