Sappiamo quanti sono diventati alla fine dell’anno scorso gli italiani all’estero, che nel 2006 erano 3,1 milioni? La bellezza di 5,8 milioni di persone, come certificato dal rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes.
Sappiamo cosa cercano questi giovani nel loro utilizzo del mare magnum digitale? Connessioni (e spazi) più autentiche, intime, limitate nei numeri e ben circoscritte in termini di passioni e preferenze.
Sappiamo quanti sono i giovani che dichiarano di sentirsi supportati dai brand nei loro bisogni di (co-) creazione? Meno del 30%, a detta di Alessandro Donetti su Forbes.
Il processo di frammentazione in tribù
A tantissimi livelli, stiamo vivendo un potente processo di frammentazione in tribù: trasversali, digitali, transnazionali e transculturali. E queste tribù di giovani sono lo specchio dei nostri tempi da innumerevoli punti di vista.
Il processo è naturalmente più complesso e ampio rispetto ai tre semplici esempi riportati qui sopra, che pure sono più che sufficienti a toccare alcuni punti nevralgici della vita contemporanea: gli spostamenti fisici seguendo le mappe del lavoro e delle opportunità, la ricerca di chi è simile nelle proprie passioni e ambizioni, l’aspettativa che parti decisive del sistema economico, e soprattutto entità capaci di impattare enormemente la produzione dell’immaginario collettivo, come i brand, valorizzino le proprie necessità creative.
Prendiamo il numero di italiani che si sono trasferiti all’estero. La mobilità italiana aumentata dell’87% è l’effetto inequivocabile dei passaggi a vuoto del nostro Paese, della sua incapacità di offrire certezze, prospettive adeguate ai sogni o alle necessità delle nuove generazioni. Secondo ActionAid e Cgil, l’Italia è oltretutto il Paese europeo con il più alto numero di cosiddetti Neet, ossia giovani tra i 15 e i 34 che non studiano, non lavorano e non sono impegnati nella formazione professionale. Si tratta di 3 milioni di persone, oltre la metà dei quali donne. E sono proprio questi due estremi statistici – chi va via, chi rimane senza volere o potere riscrivere la storia – a colpirmi maggiormente.
Al pensiero di oltre tre milioni di giovani la cui quotidianità non è segnata da alcun tragitto evolutivo, prevale la costernazione. Come è possibile che così tante energie vengano sperperate senza prospettiva? Quanto costa al nostro Paese questo potenziale disperso? Per non parlare del vero costo, quello pagato dagli individui. Che infatti, sempre più spesso come certificano i numeri, partono.
Partire è un po’ morire, oppure no?
Voglio tuttavia provare a ribaltare la prospettiva, in modo da non vivere le cifre in crescita degli italiani all’estero come un dato per forza soltanto negativo. Dentro quei numeri, oltre a un evidente fallimento verso i giovani italiani da parte del nostro sistema paese che è innegabile, si celano anche delle opportunità. Prima di tutto per le persone, che all’estero ci sono andate evidentemente rincorrendo dei sogni, o semplicemente delle occasioni che a casa propria non esistevano. Magari controvoglia. Forse con l’intento di tornare. O forse no.
Ma in ogni caso, loro rappresentano un’opportunità anche per il nostro Paese. Depauperato dalla loro assenza, certo, che pure il paese stesso non ha saputo capitalizzare a tempo debito. Eppure, qualcosa di buono – di più: di impreventivabile! – potrebbe tornare, in termini di reti transnazionali, di professionisti di domani italiani che si sono formati in parte all’estero, e all’estero operano, come tanti snodi di una rete che (ri)porti competenze e occasioni di business anche verso l’Italia, se non più propriamente verso “casa” per coloro i quali “casa” verrà magari definitivamente costruita altrove.
Chi saranno questi italiani, domani? Professionisti magari molto specializzati, con una visione più dinamica e europea e un’anima italiana inedita, temprata in condizioni più adeguate alle proprie capacità e inclinazioni? O semplicemente, un giorno più o meno lontano, stranieri di origine italiana? Dovremo insomma porre grande attenzione alle tribù iperframmentate generate da chi oggi è andato via. Provare in parte a ricomporle, se non sempre in percorsi di rientro, che riportino competenze e capitale umano acquisito, certamente in un sistema di relazioni duraturo, affinché domani non siano tribù distanti a tal punto da non poter portare valore anche nella nostra direzione.
Tribù versus mainstream
Il tema degli italiani all’estero è ovviamente troppo ampio per queste righe. E per giunta è soltanto una faccia del prisma. La vera domanda è: quante tribù, e a quanti livelli, sono importanti, sono da valorizzare e mettere a sistema per costruire un futuro diverso e migliore? La problematica dialettica tra individuo e società si sta facendo sempre più intricata proprio perché una risposta chiara a questa domanda non c’è. Ed è precisamente la caratteristica dell’epoca che stiamo vivendo.
Più modestamente, mi limito a riflettere sul fatto che quando l’esplosione dei social network – o meglio, della logica profonda dei social dilagata in molti altri aspetti della vita collettiva, dalla politica alla vita sociale tout court – porta molti giovani a rifugiarsi in villaggi digitali più riparati, con meno persone e più affini in termini di passioni e ambizioni, la epocale domanda da farsi è: quante persone, specialmente giovani, stanno cercando spazi per esprimere maggiore autenticità? Anelano a creare relazioni più significative, in quanto imperniate su passioni e bisogni comuni?
Poco importa allora che i “ripari digitali” siano mondi virtuali e ludici come Fortnite, programmi di condivisione di file come LiveIn o di messaggistica come Discord. La rilevanza piena di questo atteggiamento a mio avviso non è la piattaforma, bensì il sentire che lo genera e che ha bisogno di essere espresso, con qualcuno, da qualche parte, in qualche modo. Oggi più che mai, il mainstream si è tramutato in un non-luogo, in qualche modo sempre uguale a se stesso, autofagocitante e appiattito su un numero limitato, e limitante, di logiche. Milioni di persone, non soltanto giovani/ssimi oltretutto, sentono allora il bisogno profondo di creare spazi di espressione di se, che quasi invariabilmente portano all’atto della creazione. Le tribù creano relazioni, comunità, idee. Precisamente quello di cui sentiamo la mancanza in un mainstream che mantiene scientemente tutti in superficie, tutti costantemente visibili e targettizzabili in quanto consumatori prima ancora che come individui.
Non è un caso che la questione delle tribù se la stiano ponendo, prima e più chiaramente di tutti, le aziende. Per ragioni commerciali, le aziende devono saper parlare a un pubblico più vasto possibile ed è impensabile semplicemente ignorare i nuovi percorsi tracciabili per raggiungere le persone. Quando la Nike o la Mattel creano comunità digitali riccamente fornite di strumenti per permettere agli utenti di creare sneakers o modellini di giocattoli, stanno aprendo degli spazi del proprio mondo e offrendoli gratuitamente a delle tribù che sperano raccolgano l’invito. Quando Mastercard presenta al CES di Las Vegas il Music Accelerator, un progetto basato sul Web 3.0 pensato per creare e supportare una comunità di musicisti, coinvolti anche in attività di formazione per imparare a creare e gestire il proprio brand musicale, abbandona addirittura la logica del coinvolgere i creatori attorno al proprio prodotto, chiamando invece a raccolta tribù di musicisti che con le attività del brand non avrebbero nulla a che fare. Il passaggio è rilevante, gli indizi inequivocabili: il Web 3.0 e la cosiddetta economia esperienziale sono già qui.