L'incontro organizzato a Fiume Veneto da PordenonePensa è stato un'occasione per confrontarmi con un pubblico attento e sensibile sul grande tema della sostenibilità nelle organizzazioni.
“La Repubblica tutela l'ambiente e l'ecosistema, protegge le biodiversità e gli animali, promuove lo sviluppo sostenibile, anche nell'interesse delle future generazioni”.
Una frase semplice ma a suo modo rivoluzionaria, quella proposta nella Commissione Affari Costituzionali del Senato. Perché rivoluzionaria è la sua destinazione: non un profilo social o un articolo di giornale, bensì la Carta Costituzionale del nostro Paese. L’iter per modificare l’Articolo 9 - che al momento sancisce la centralità di cultura, ricerca scientifica, tutela del paesaggio e del patrimonio storico - è ancora lungo, ma il primo passo è stato finalmente fatto, peraltro con il sostegno di tutta la maggioranza.
Ventuno parole chiamate a un compito di fondamentale importanza: allineare la Costituzione alla contemporaneità, annullare la distanza tra i padri fondatori e gli italiani di oggi e di domani sui temi che giocoforza sono diventati la Sfida del nostro tempo. Non è insomma un atto puramente simbolico, quanto piuttosto una soglia anche psicologica tra un prima e un dopo. E mi piace pensare che sia di buon auspicio che il cammino di queste parole verso le pagine della nostra Costituzione sia ufficialmente iniziato poche ore prima del 22 maggio, Giornata Mondiale della Biodiversità, istituita dalle Nazioni Unite nel 2000. Lo slogan di quest’anno, “Siamo parte della soluzione”, sposta il focus su un concetto a me molto caro, quello di responsabilità.
Sui palchi dove ho avuto il piacere di salire ho quasi sempre condiviso con la platea l’etimologia di questa parola, ossia “la capacità di dare risposte”. Oggi siamo tutti chiamati quantomeno a cercarle, poiché il lato oscuro di questo accattivante slogan è che non essere parte della soluzione significa essere parte del problema. Un concetto modellato in altri tempi e su altri terreni, quelli della divisione sociale, eppure così da attuale da riscrivere l’idea stessa di “impegno”.
Un tempo a far ribollire le nostre società c’erano le grandi narrazioni politiche, le battaglie sociali e un talvolta tronfio positivismo tecnologico. Oggi persistono, e forse si sono persino radicalizzate, altre visioni inconciliabili del futuro, ma proprio per questo abbiamo bisogno di terreni comuni su cui imparare nuovamente a confrontarci gli uni con gli altri. E perché allora non la salute degli ambienti che abitiamo e da cui dipendiamo, e la salvaguardia dei miliardi di specie animali e vegetali che imbastiscono la trama della nostra vita? Dopotutto, il cambiamento climatico, la pandemia e il ticchettio dell’orologio biologico del nostro pianeta non si curano delle nostre indecisioni. Possiamo insomma litigare su tutto, tranne che su questo.
Abbiamo a portata di mano una nuova occasione di “impegno” e ognuno di noi è chiamato ad appropriarsene e a rilanciarla sull’asse delle proprie relazioni e dei ruoli che ricopre. Abbiamo appena iniziato a farci l’orecchio del mantra della “transizione ecologica e solidale”, dobbiamo a tutti i costi evitare di considerarlo un processo che accade altrove, condotto da qualcun altro. Noi siamo la transizione: quando spingiamo per innovare un modo di produzione nell’azienda in cui lavoriamo, o scocciamo i nostri familiari se lasciano la luce accesa nelle stanze vuote, o lasciamo la fetta della spiaggia più pulita di come l’abbiamo trovata sei ore prima. Quando ci meravigliamo che dividere i rifiuti in cestini diversi per i nostri figli sia un’azione spontanea e banale, mentre per noi ancora uno sforzo.
“Le scelte di stile di vita sostenibili sono la chiave. E tutti devono poter esser in grado di compiere questa scelta” sostiene Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite. “Ciò significa migliori politiche promosse dai governi e dalle aziende, ma anche la centralità della responsabilità individuale. Dobbiamo tutti far parte di un movimento per il cambiamento”.
Il pensiero di Guterres inquadra ulteriormente le ragioni per cui le ventuno parole siano azione in potenza, non simbolo fine a se stesso. All’individuo non si può infatti chiedere di cambiare il mondo per conto proprio. Dietro alle sue scelte, interi sistemi produttivi, di governance ed educativi devono evolversi e modellare il terreno, rendendo possibile che le azioni dei singoli possano incidere e contare davvero. A chi obietterà “che cosa possono cambiare venti parole in più nella Costituzione” potremo dunque sempre rispondere: sono parte della, anzi delle, soluzioni. Non le cercherà qualcun altro per noi. E siamo già in ritardo, dentro e fuori le pagine.