Mentre la nostra attenzione è concentrata sulla guerra in Ucraina, in molte parti del mondo le disuguaglianze aumentano.
Che nostro malgrado ci siamo ritrovati in un periodo che resterà scritto negli annali della storia è oramai un dato di fatto. Alcuni di noi ci hanno già fatto l’abitudine perché noi esseri umani ci abituiamo a tutto, anche l’orrore diventa a lungo andare normalità. La vittima si abitua all’aguzzino. Il recluso alla reclusione. È un dato di fatto provato dalla storia. Per questo sappiamo già che un giorno ci capiterà che parleremo ai nostri nipoti di questi giorni di pandemia.
Dunque, la domanda non è “se” ne parleremo, ma “come” lo faremo. Quali dettagli sceglieremo e quali parole useremo. Non sono domande di poco conto, pensiamoci, perché se siamo tra coloro il cui ricordo sarà di lunghe settimane monotone e sempre uguali, il racconto sarà di un tipo diverso rispetto a quanti invece hanno vissuto notti insonni in preda all’ansia o alla paura o a stretto contatto con la sofferenza e la morte.
Ed ecco un’altra domanda: saranno racconti dolorosi?
La scienza dice che a rendere i ricordi memorabili ci pensano alcuni fattori tra cui il nuovo, il cambiamento, la transizione da uno stato all’altro, e la connotazione emotiva.
Ecco perché ritengo importante che in questa fase abbandoniamo la domanda tipica che ci siamo posti sin qui, cioè “cosa sta succedendo?”, e ci interroghiamo invece su cosa fare, quali pensieri avere, quali azioni compiere.
Se ce ne restiamo ben lontani dai pensieri distruttivi che non farebbero nient’altro che trasportare nel nostro futuro emozioni angoscianti, ma ci proiettiamo in una dimensione costruttiva, creativa, quindi luminosa, abbiamo l’occasione di creare una nuova architettura di pensiero, proattiva verso il nuovo. Insomma, è adesso che occorre scegliere se apparterremo a coloro il cui racconto ai nipoti sarà quello di un vinto o di un vincitore.
Questo è il tempo giusto per dimostrare chi possiamo essere. Uscendo dalle nostre dimore, in questi e nei prossimi giorni, ci ricongiungeremo con i nostri cari ma incontreremo anche i nostri vicini. Come li tratteremo? Con quali occhi li guarderemo? Li vedremo come nemici oppure come amici? Cioè sceglieremo di comportarci da primitivi difendendoci dall’altro o peggio aggredendolo per farne una preda, per derubarlo anche del pane e perseverando nel comportamento egoisticamente ripiegato su noi stessi oppure sceglieremo di imparare la lezione?
Mutuando un magnifico ragionamento di Patrizio Paoletti, voglio sottolineare che siamo una specie che da tempo immemore costruisce il proprio codice comportamentale sul paradigma “mors tua vita mea”, in taluni frangenti e in taluni contesti ha prodotto l’ulteriore degenerazione del “mors tua, mors mea” che si è incarnata in attentatori e terroristi programmati sull’idea di determinare la propria morte per favorire quella del cosiddetto nemico. Ora è necessario uno slancio evolutivo che ci faccia invertire la rotta per entrare finalmente nella nuova era del “vita tua, vita mea”.
Questo virus, questo imprevisto invisibile a suo modo ha reso visibile l’interconnessione esistente tra tutti gli individui e ha reso evidente la necessità di occuparci degli altri per occuparci di noi stessi. Adesso serve che questa evidenza entri nel racconto collettivo e si propaghi nel futuro sino a diventare ricordo, vorrà dire che lo avremo inglobato nella nostra storia perché reso esecutivo.